Grazia Zuffa presenta il progetto CORPO sull’affettività in carcere per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto.
Costruire Relazioni Positive (CORPO): è il progetto di formazione – ideato dalla Società della Ragione col sostegno di Fondazione CR Firenze – per operatori penitenziari di diversa professionalità e posizione di alcuni istituti penitenziari fiorentini, fra cui Sollicciano. Il tema: relazionalità, emotività, affettività, esplorate nel contesto carcerario. Il primo elemento da notare è la sottovalutazione di queste dimensioni nell’iter formativo degli operatori. Eppure, l’elemento emotivo è centrale nella vita carceraria. Basti pensare al significato enorme della privazione della libertà, che dà ragione dell’ingresso in carcere come momento emotivamente intenso, che mette a dura prova le capacità personali di resistenza. Né può stupire che la possibilità di mantenere e coltivare le relazioni significative “fuori” siano un pilastro della tenuta psicologica della persona. Non a caso le rivolte nelle carceri al tempo del Covid, colpevolmente dimenticate coi loro morti, nacquero dalla disperazione per l’interruzione dei rapporti coi familiari e di tutte le attività dipendenti dall’esterno. E poi ci sono le relazioni di base “dentro”, fra le persone recluse e fra queste e il personale. Gli operatori che hanno partecipato alla formazione sono consapevoli dell’importanza di instaurare relazioni positive con i detenuti/e e hanno anche sviluppato competenze valide nella pratica quotidiana. Eppure, percepiscono che «queste non sono riconosciute come parte significativa della loro professionalità».
Il tema dell’affettività ha conquistato l’attenzione pubblica con la sentenza della Corte 10/2024, che, dopo battaglie di decenni, ha stabilito il diritto dei detenuti agli incontri intimi. Una sentenza di grande rilievo che, nel riconoscere uno spazio centrale di espressione umana alla persona reclusa, ha implicitamente rilanciato il nodo dei limiti della pena, secondo la Costituzione: la privazione della libertà non può eliminare gli altri diritti fondamentali della persona, dalla tutela della salute, fino al mantenimento delle relazioni affettive e all’esercizio della sessualità. La sentenza è uscita in contemporanea allo svolgimento della formazione, il che ha permesso di approfondire con gli operatori, in specie gli agenti, il significato da loro attribuito alla pena e ai diritti nel contesto della loro mission professionale. È così emerso un “conflitto originario”, non sempre riconosciuto, fra chi custodisce e chi è custodito. L’agente incarna agli occhi del detenuto (perfino materialmente con le chiavi dei cancelli) il potere di sottrarre il bene enorme della libertà. Perciò, dalla parte del detenuto, il conflitto assume la forma di “resistenza/sottrazione” al “potere” dell’agente. Gestire questo conflitto è possibile se la relazione originaria di “potere” – inteso come soggezione dell’uno all’altro – evolve verso un potere inteso come scoperta di nuove potenzialità relazionali, lontane dai luoghi comuni. Il più radicato dei quali è la contrapposizione fra diritti/sicurezza. Al contrario, una cornice riconosciuta di diritti può ridurre la “resistenza” del detenuto, poiché segna i limiti del potere di sottrazione della libertà. D’altro lato, segnare i confini di quel potere, lungi dal risolversi per l’agente in una diminuzione di sicurezza e di status, gli/le conferisce un di più di sicurezza come guadagno di professionalità aperta a nuove forme relazionali. Un’apertura essenziale anche per il personale socioeducativo, per meglio inquadrare il “trattamento” fuori da tentazioni di paternalismo autoritario.
In conclusione, i partecipanti alla formazione in tutti gli istituti coinvolti si sono trovati d’accordo nel chiedere più formazione: strutturata, continua, costruita “dal basso”. Un segno che relazionalità e affettività stanno conquistando il posto che meritano nel discorso sul carcere.
Report e info sul progetto CO.R.PO su societadellaragione.it/corpo
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