Dalle liste di attesa all’autonomia differenziata: la sanità tra stato e regioni. di Gilberto Turati

Per ridurre le liste di attesa in sanità, il governo si affida a un decreto legge che forse non darà i risultati sperati. Di sicuro, però, è riuscito a scontentare le regioni. Un prologo di quello che accadrà nelle discussioni sull’autonomia differenziata?

I provvedimenti del governo sulle liste di attesa in sanità

A ridosso del weekend delle elezioni europee, Il governo ha varato due provvedimenti per provare a risolvere il problema delle liste d’attesa in sanità, un tema ricorrente nel dibattito pubblico, ma letteralmente esploso dopo la pandemia: i dati dell’Istat segnalano che nel 2019 erano 1,5 milioni gli italiani che hanno rinunciato alle cure per tempi di attesa troppo lunghi, nel 2023 il numero è salito a 2,7 milioni.

I due provvedimenti del governo, il decreto legge n. 73 del 7 giugno 2024 e il disegno di legge su misure di garanzia per l’erogazione delle prestazioni sanitarie e altre disposizioni in materia sanitaria, sono stati fugacemente commentati dalla stampa, finendo poi rapidamente nei dibattiti e nelle discussioni degli addetti ai lavori.

Il primo, il Dl 73/2024, un atto di particolare urgenza nella grammatica del governo, è attualmente all’esame della Commissione sanità del Senato per la conversione in legge. Prevede tre gruppi di misure concernenti la raccolta di informazioni statistiche sulle liste, l’organizzazione del servizio e le risorse di personale.

Il governo prova così a raccogliere informazioni più coerenti con le esperienze dei pazienti rispetto alle statistiche oggi disponibili. I dati Ocse mettono il nostro paese tra quelli dove i tempi di attesa sono più brevi: ad esempio, la mediana per una cataratta sono 17 giorni, contro 59 nel Regno Unito o 128 in Norvegia; la mediana per il bypass coronarico sono 7 giorni, quando nel Regno Unito se ne attendono 54 e in Norvegia 85.

La raccolta di informazioni “più precise” è demandata all’Agenas, tramite la predisposizione di una Piattaforma nazionale delle liste d’attesa e la possibilità di verifiche da parte della stessa Agenzia e di un nuovo organismo di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria che verrà creato presso il ministero della Salute e che rafforzerà i controlli effettuati da parte del Sistema nazionale di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria (Siveas), avendo la possibilità di accedere direttamente alle aziende e agli enti del Sistema sanitario nazionale.

In merito all’organizzazione del servizio, il decreto prevede un rafforzamento del Cup, stabilendo che tutti i produttori di servizi (pubblici e privati accreditati) debbano aderire al sistema unico di prenotazione per garantire una visione completa delle agende a disposizione. Come già in passato, si stabilisce anche che, qualora i tempi previsti dalle classi di priorità per l’erogazione dei servizi non possano essere rispettati, si potrà usufruire dell’attività libero-professionale intramuraria. Infine, si estende la fascia oraria di erogazione delle prestazioni includendo il fine settimana, anche questa una misura già sperimentata.

Sul fronte del personale, si incrementa il limite per la spesa del 10 per cento su base annua (e di un ulteriore 5 per cento per le regioni che ne faranno richiesta) in attesa che, dal 1° gennaio 2025, venga interamente abrogato il tetto di spesa. Si prevedono inoltre incentivi all’offerta di lavoro tramite la tassazione agevolata con una imposta sostitutiva dell’Irpef al 15 per cento, una misura che però appare di difficile applicazione per questioni tecniche legate alla definizione delle prestazioni aggiuntive.

I dubbi sull’efficacia

Riusciranno queste misure a ridurre almeno in parte i tempi di attesa? Molti osservatori ritengono di no: si ripropongono vecchie ricette e non si stanziano nuove risorse per aumentare la capacità produttiva (che, da un lato potrebbe contribuire a ridurre le liste, ma dall’altro potrebbe aumentare la domanda). Il problema è peraltro comune a molti paesi avanzati ed è peggiorato sensibilmente dopo il Covid-19. Nel Regno Unito, ad esempio, si stima  che la lista d’attesa per gli interventi programmati sia cresciuta da 2,5 a 4,6 milioni di pazienti tra il 2012 e il 2020. E dopo lo stop della pandemia la lista si è ingrossata fino a 6,7 milioni di pazienti, molti di più di quanti fosse lecito attendersi.

Sul provvedimento sono molto critiche le regioni che, pochi giorni fa, hanno dato parere negativo sul decreto in Conferenza stato-regioni. Oltre a lamentarsi della mancanza di finanziamenti (anche se ancora non è chiaro se e come siano stati spesi le risorse destinate dai precedenti governi all’abbattimento delle liste), le regioni ritengono imprescindibile lo stralcio dell’articolo 2 del decreto, una posizione sulla quale il governo ha già espresso parere negativo (anche se le ultime notizie sembrano andare verso un possibile emendamento nella direzione auspicata dalle regioni).

Ci sono spazi per un’ulteriore autonomia?

Che cosa prevede l’articolo 2 che tanto ha fatto arrabbiare le regioni? Si tratta della costituzione di un nuovo organismo di verifica e controllo sull’assistenza sanitaria istituito presso il ministero della Salute. Ha il compito di vigilare e svolgere verifiche direttamente presso i singoli erogatori sul rispetto dei criteri di efficienza e di appropriatezza nell’erogazione delle prestazioni, sul funzionamento del sistema di gestione delle liste d’attesa, sui piani operativi per il recupero delle prestazioni e l’abbattimento delle liste. Le regioni lamentano che l’accesso diretto alle strutture (anche a partire da segnalazioni di cittadini, enti locali e associazioni di categoria), sia quanto meno lesivo del principio di leale collaborazione e valutano che un simile provvedimento presenti profili di illegittimità costituzionale. Il motivo è che lo stato controlla le regioni, ma sono poi le regioni a controllare le aziende sanitarie.

Chi ha ragione e chi ha torto? Difficile dirlo; sarà la Corte costituzionale, se si dovesse arrivare fino a lì, a pronunciarsi e chiarire la diatriba. Però il tema rende evidenti le difficoltà della legge Calderoli sull’autonomia differenziata: quali sono le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nell’ambito della materia “tutela della salute”? Quali funzioni possono essere davvero richieste? Difficile pensare che la legge metta in gioco i principi su cui si fonda il Servizio sanitario nazionale se il ministero della Salute non è disponibile a negoziare sui controlli dello stato direttamente dentro alle aziende sanitarie. Per fare gli accordi bisogna essere in due e, almeno apparentemente, anche su questioni come questa, lo stato non sembra disposto ad arretrare. Gli spazi di autonomia sono quelli lasciati aperti dalla legge nazionale e forse dovremmo partire da qui per le valutazioni della legge di attuazione del regionalismo differenziato.

fonte: https://lavoce.info/archives/105333/dalle-liste-di-attesa-allautonomia-differenziata-la-sanita-tra-stato-e-regioni/


turatiGilberto Turati è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove coordina la Laurea Magistrale in Management dei Servizi e il Master in Economia e Politica Sanitaria di ALTEMS/Coripe presso il Campus di Roma. É vicedirettore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e membro del Comitato Direttivo della Società Italiana di Economia Pubblica (Siep). Fa parte della redazione de lavoce.info, del comitato di redazione di “Politica Economica – Journal of Economic Policy” e del comitato di direzione del “Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Le cose nuove del XXI secolo”. È stato prima ricercatore, poi professore associato all’Università degli Studi di Torino. É stato membro del Board della European Public Choice Society (EPCS) per il term 2012-2015 e Presidente dell’Organismo Indipendente di Valutazione della Azienda Ospedaliera Ordine Mauriziano di Torino per il mandato 2019-2022.

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