Sergio Segio scrive sul DL Nordio sulle carceri per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto
Il decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92, pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale” n. 155, reca “Misure urgenti in materia penitenziaria, di giustizia civile e penale e di personale del Ministero della giustizia”. Sintetizzato dai giornalisti in “Decreto Nordio” è, al solito, mistificato negli effetti e nel significato: «Via libera in cdm al decreto “svuota carceri”. Nordio: “Intervento di umanizzazione carceraria”», titola, ad esempio, l’editoriale del Domani.
Per le carceri vi sarebbe davvero necessità di ridimensionare presenze e ingressi, di mitigarne le condizioni e di riformarne in profondità le strutture. Ma non è certo questo l’intento del decreto e la volontà del governo. Il quale, anzi, sta adoperandosi a una strategia repressiva a vasto raggio a base di anni di carcere per attivisti ambientali, occupanti di case, lavoratori che blocchino la produzione, studenti che occupino o cittadini che effettuino blocchi stradali, oltre che, come sempre, giovani che consumino innocui spinelli.
Strategia che non mancherà di intasare maggiormente le celle, rendendole vieppiù invivibili. Già ora, in effetti, un numero crescente di detenuti sceglie di non viverci del tutto, preferendo il suicidio al tormento quotidiano in una detenzione senza speranza, ormai avvitata in dinamiche di microconflittualità perenne e di violenza crescente. Sembra questo, in realtà, l’obiettivo delle scelte politiche e legislative in corso: buttare benzina sul fuoco sino all’esplosione, onde poter ancor meglio e con maggiore consenso militarizzare le carceri e seppellirne i residenti. Avendo già provveduto nei mesi scorsi, col DDL sicurezza, a prevedere pesanti pene non solo per rivolte o violenze in carcere ma persino per la «resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti».
In un paese che vede ogni giorno superato il record di autolesionismo e detenuti suicidi, che nel marzo 2020 aveva visto una strage “sudamericana” con 13 detenuti morti senza che ciò inducesse una riflessione e una svolta, il governo non ha neppure accolto il pannicello caldo della proposta Giachetti di ampliamento della liberazione anticipata per buona condotta. Nel decreto in questione si è limitato a una sistematizzazione della misura attuale, giocando sull’improbabile effetto psicologico: la pena decurtata sarà indicata già nell’ordine di esecuzione, salvo revoca o mancata concessione nel caso «il condannato non partecipi all’opera di rieducazione».
In definitiva, l’unica reale miglioria consiste nella possibilità di deroga (già prevista durante la pandemia) al numero massimo di colloqui e telefonate; mentre la sola misura potenzialmente in grado di incidere sul sovraffollamento – ma non immediatamente operativa – è l’istituzione di un elenco di strutture residenziali accreditate “idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale”. Un altro discutibile contributo a ipotesi di esternalizzazione della pena reclusiva.
Infine, per i sottoposti al 41bis viene escluso l’accesso a programmi di giustizia riparativa. Il che, oltre a una logica vendicativa e fuori tempo che vuole questi detenuti murati vivi, implicitamente e indirettamente indica che quella particolare forma di giustizia introdotta dalla riforma Cartabia si configura come una misura non dissimile da altri meccanismi premiali che, a fronte di un “pentimento”, consentono riduzioni di pena. Con la più insidiosa differenza che in questo caso il reo (o anche solo l’imputato!) dovrà guadagnarsi la possibilità di benefici non già facendo arrestare o condannare altre persone, bensì accettando di essere inserito in un percorso di incontro con le vittime del reato. Ovvero, attraverso l’adesione a una concezione della pena privatistica e da Stato etico.
La direzione di marcia è, insomma, reprimere e drammatizzare. Altro che umanizzazione!