Considerazioni su Giacomo matteotti e noi. di Francesca Rigotti

Francesca Rigotti nella ricorrenza del centenario dell’uccisione, per mano del regime fascista, del deputato socialista, Giacomo Matteotti, propone una breve analisi filosofico-metaforologica della figura dell’uomo politico e del pensatore e delle sue idee, prestando particolare attenzione al suo linguaggio, al suo rapporto con i segmenti più svantaggiati della società e alla sua tormentata posizione di pacifista.


Sono usciti tantissimi studi, libri, articoli, blogs e altro su Giacomo Matteotti, in occasione del centenario della sua morte per mano dei fascisti, il 10 giugno 1924. Si tratta di materiale elaborato essenzialmente in prospettiva storico-politica. Nel mio saggio che accompagna l’ultimo discorso di Matteotti del 30 maggio 1924 e che ho scelto di intitolare Il consenso e la forza (Giacomo Matteotti, Il consenso e la forza. L’ultimo discorso del 30 maggio 1924, con un saggio di Francesca Rigotti, Novara, Interlinea, 2024, pp. 80, € 12) ho cercato invece di affrontare l’argomento piuttosto da un punto di vista filosofico, di filosofia e metaforologia politica. Nel ripercorrerlo qui, vorrei mettere dunque brevemente in rilievo i punti che ritengo più strettamente collegati a tali discipline, quindi il tema del linguaggio e della parola; il rapporto con gli umili e gli oppressi: il socialismo democratico e pacifista. Sono argomenti sconfinati ma cercherò di circoscriverli e soprattutto di collegarli al pensiero e alla parola e alle angosce di Giacomo Matteotti, deputato.

Linguaggio e parole. Eletto in Parlamento nelle fila del Partito Socialista Unificato nel 1919 all’età di 34 anni, Matteotti sfrutta ampiamente quel luogo in cui si parla e si parlamenta, ovvero si usa la parola e specificamente si tratta in pubblico con un nemico o un avversario per giungere a una tregua o a un accordo. «Turati diceva che gli scritti di Matteotti erano tutti muscoli e nervi, senza contorno di polpa ma la loro forza è proprio lì; nelle ordinanze di cifre ordinate a battaglia contro la retorica fascista. Bastano a Matteotti poche cifre, una breve tabellina, per sgonfiare un otre di esaltazione e di vento…Io gli dicevo che “pensava per cifre”; ed è il suo spirito di concretezza, di precisione, meticoloso, matematico, che si disposava in lui all’ardore inestinguibile di un idealismo, che lo condusse al martirio» (M. Ruini, “Il documentatore”, in Giacomo Matteotti. Nel I° Anniversario del suo martirio. a cura del Comitato Centrale delle opposizioni, Arnaldo Forni editore, 1925, pp. 25-26).

L’osservazione di Meuccio Ruini, giurista, oppositore del fascismo, scritta a caldo non molto tempo dopo l’assassinio di Matteotti, è corretta e adeguata, nonché confermata dalle parole di Matteotti medesimo: «Non sono abituato ai discorsi politici bensì ai discorsi tecnici», condotti con «la massima precisione, con date, nomi, luoghi e circostanze precise, in poche parole».

Di quei dati, ripetuti a memoria e senza preparazione, Matteotti si sarebbe servito per denunciare le modalità in cui si erano tenute le elezioni del 6 aprile 1924 delle quali, nell’ultimo discorso, avrebbe contestato la validità.

Eppure l’eloquenza di Matteotti non era fatta unicamente di cifre, dati, schematismi e sillogismi, non era soltanto concisa e precisa. Sapeva essere infatti anche ironica e appassionata, sapeva accompagnarsi e vivacizzarsi con riferimenti letterali, paragoni, analogie e metafore, pur essendo lontanissima dalla retorica tronfia di Benito Mussolini.

L’eloquio del duce era infatti profondamente pervaso da immagini retoriche e figure metaforiche usate allo scopo di attirare l’attenzione e sollecitare il consenso dell’uditorio rivolgendosi alla sua parte meno razionale. L’oratoria di Matteotti invece è parca di immagini ma non ne è completamente priva; è asciutta e precisa, sì, ma non è arida né ignara di pathos. Lo dimostrano i riferimenti metaforici al corpo, alla natura, agli animali, al raccolto, alla semina, nonché quelli alla mitologia e alla storia (per es. Il richiamo al «grido di dolore» che il Lombardo-Veneto come parte dell’Impero austriaco levava al re, Vittorio Emanuele II, che in Matteotti diventava «il grido immenso di dolore» proveniente dalle nostre province (scrive nel dicembre del 1921) oppresse dalla violenza e dal terrore delle bande armate.

Il rapporto con gli umili e gli oppressi. Non sappiamo perché quest’uomo intelligente, che avrebbe potuto intraprendere una carriera bene pagata e interessante come avvocato o docente universitario, avesse deciso di dedicarsi agli interessi delle classi svantaggiate. Fu forse il ricordo dei volti dei contadini del Polesine, delle condizioni di vita della zona in cui era nato e cresciuto. Il Polesine era una delle aree più infelici e sottosviluppate d’Italia, dove vegetava una popolazione malnutrita in condizioni sanitarie e igieniche carenti. Vi regnavano le malattie tipiche delle zone paludose: tubercolosi, rachitismo, difterite, anemia, e soprattutto pellagra e malaria. Una zona di emigrazione, dunque, soprattutto verso il Brasile, intrapresa per sopperire all’elementare necessità di sopravvivere.

La famiglia di Matteotti, originaria delle montagne tridentine, era benestante. I suoi genitori gestivano un’attività commerciale nel paese di Fratta, al riparo da carestie, siccità estive, alluvioni, inverni lunghi e gelidi, alternanza di raccolti e carestie. Eppure non potevano non vedere le condizioni di vita dei più sfortunati, e anch’essi dovettero pagarne il prezzo: nel corso del 1909/1910, il fratello maggiore di Giacomo, Matteo, e il minore, Silvio, morirono di tubercolosi rispettivamente all’età di 33 e 23 anni.

Forse per questo anche su Giacomo, come sul fratello Matteo, fecero presa le idee socialiste, i sentimenti umanitari e un senso di ribellione contro l’ingiustizia.

Socialismo democratico e pacifismo. Matteotti faceva parte dell’ala sinistra del movimento riformista, nel quale la sua posizione si rinforzò dopo l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale. Turati e il partito nell’insieme (con l’eccezione di Mussolini che, dapprima membro del partito socialista, ne venne escluso per il suo interventismo) erano contrari alla partecipazione italiana alla guerra. Lo stesso Matteotti, ancora più radicalmente pacifista, era disposto ad impedirla con tutti i mezzi, anche con lo sciopero generale. Né si riempiva la bocca della parola patria e del patriottismo nazionalista coltivato ad arte, un fantasma che spesso si riaffaccia in tempi difficili per ricompattare il paese con lo sventolio delle bandiere tricolori. La patria di Matteotti era un’altra cosa, era sinonimo di libertà e autonomia, dove l’unità etnica, la lingua, le tradizioni avevano ben poco significato. A lui interessava piuttosto la terra della libertà di parola, in cui gli oratori possono passeggiare e parlare liberamente e dove sono previste discussioni pubbliche. Ma non era questo il caso del Parlamento italiano nell’anno 1924. Il regime era già una dittatura e da una dittatura non ci si può aspettare né la salute delle istituzioni né l’incolumità dell’individuo. Bisogna dunque passare ai fatti, asseriva Matteotti, e richiamarsi alla dignità della resistenza contro l’illegalità.

Il suo pacifismo, il suo rifiuto assoluto della violenza gli valsero anche le critiche di Gramsci, all’indomani della morte del deputato. Una settimana dopo la sepoltura, il 28 agosto 1924, Antonio Gramsci, in un articolo su «Lo stato operaio», definì Matteotti un «pellegrino del nulla», un «pioniere caduto sulle proprie orme, il seguace di una scuola politica che aveva dato vita a un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza vie d’uscita», quale era per Gramsci la pratica socialdemocratica.

Il pacifismo di Matteotti subì tuttavia un duro scossone proprio a causa delle continue violenze, fino al punto in cui si trovò a raccomandare alla base del partito una azione ferma e energica contro il fascismo: polemiche e accuse parlamentari si erano dimostrate di scarso valore ed effetto e andavano sostituite con iniziative militanti. Matteotti criticava l’atteggiamento passivo dei socialisti, soprattutto del suo partito, di fronte all’aggressività dei fascisti. Il parlamento, scriveva Matteotti, è la tribuna più efficace per presentare le proprie opinioni e convinzioni di fronte a quelle del partito dominante, il luogo più adatto per spiegare lo stato delle cose all’opinione pubblica. Il conflitto delle idee e delle parole può essere però condotto soltanto là dove regna la libertà di parola, dove il discorso politico nel vero senso della parola può fiorire senza impedimenti dovuti a frode e a manipolazione.

In fondo, è lo stesso conflitto interiore che attanaglia tutti noi davanti ai terribili eventi bellici che ci circondano. Vorremmo essere pacifisti ma non possiamo non renderci conto che la rinuncia della violenza non farebbe che consentire la bieca sopraffazione e eventualmente portare l’aggressore a spingere ulteriormente le sue pretese. «Nous sommes embarqués » aveva detto Pascal, e Sartre gli aveva fatto eco con il suo «vous êtes engagés», non potete, non possiamo fingere di non essere tutti coinvolti.

fonte: https://eticaeconomia.it/considerazioni-su-giacomo-matteotti-e-noi/


Francesca Rigotti, filosofa e saggista, è stata docente nelle università di Göttingen, Princeton e Zurigo e dal 1996 al 2021 all’USI  di Lugano. Studia le procedure metaforiche e simboliche nel pensiero filosofico e politico e nella vita quotidiana e collabora con vari media italiani e svizzeri. Tra le sue monografie : Clemenza (2023), L’era del singolo (2021) Il filo del pensiero, 2002 e 2021; Buio, 2020; De senectute (2018);  Onestà (2014); con Duccio Demetrio, Senza figli. Una condizione umana (2012); Filosofia delle piccole cose, 2004; L’onore degli onesti, 1998; Il potere e le sue metafore, 1991.

Print Friendly, PDF & Email