Tutti i giorni usiamo tante parole per scambiare tra di noi contenuti e messaggi che riteniamo più o meno importanti. Non passiamo, giustamente, molto tempo a interrogarci sul loro significato che tendiamo a dare per scontato. Proprio per questo uso spontaneo e “naturale” delle parole, il modo in cui parliamo e con cui scriviamo possono essere considerati uno specchio di quello che pensiamo, di come rappresentiamo i diversi aspetti della nostra vita.
Quando parliamo di disabilità, le parole sono un problema in sé, principalmente, quando sono portatrici di un contenuto offensivo, minaccioso o denigrante: per questo motivo da tanti anni molte persone e diverse realtà si sono impegnate per promuovere un linguaggio rispettoso delle dignità delle persone con disabilità.
Su questo fronte, possiamo essere soddisfatti dei risultati raggiunti, anche se il traguardo può apparire ancora da raggiungere. Non mancano, purtroppo, nel discorso pubblico, episodi così negativi da sembrare mettere in discussione tutto il lavoro svolto in questo campo. Ma non sono queste le parole più interessanti, oggi, per capire cosa pensiamo che sia la disabilità, così come non è più tanto utile -a questo scopo – definire quali siano le parole migliori o peggiori per parlarne.
La proposta di curare una rubrica su «Il Segno», dal titolo Solo una parola, dedicata al linguaggio, ha offerto la possibilità di verificare il significato di alcuni vocaboli a cui non attribuiamo un particolare valore, pur essendo ricorrenti nel nostro àmbito. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, a quante volte gli operatori sociali nei loro discorsi e nei loro documenti sulla disabilità parlano di “terapie” o “servizi”, senza dover ogni volta specificare di cosa stiano parlando. Fermarsi un attimo e approfondire quali siano le rappresentazioni implicite che si nascondono nell’uso di alcune parole è un’opportunità per verificare quali siano le diverse idee che si incontrano e si scontrano oggi sulla disabilità.
Perché nei discorsi e nei testi sulla disabilità troviamo spesso la parola “genitori”? E come mai riteniamo che sia così importante associare la parola disabilità con il suo apparente opposto, cioè “abilità”? Oppure quali sono le ragioni che ci impediscono di pensare ai diritti delle persone con disabilità in relazione alla loro “libertà”?
L’impegno per la promozione e il rispetto dei diritti umani delle persone con disabilità è composto da azioni molto differenti fra loro. La prima, assolutamente necessaria, è quella associativa, cioè quella di riconoscersi come compagni uniti dalla stessa volontà di emancipazione. Sono poi indispensabili le attività in campo politico, sociale, legale, tecnico. Ma senza un’adeguata attenzione alla comunicazione, tutti questi sforzi sembrano essere vani.
Il problema è che far capire che le persone con disabilità devono poter godere degli stessi diritti e delle stesse opportunità delle altre persone, in modo efficace, è molto difficile. Nessuno mette formalmente in dubbio il diritto all’uguaglianza delle persone con disabilità, ma poi, nella pratica, è considerato assolutamente “normale” che non possano scegliere dove e con chi vivere, che studino e lavorino meno rispetto alle altre persone, che dipendano per la loro assistenza principalmente dai loro familiari o che abbiano o meno significative relazioni sociali. È quindi evidente la distanza tra quanto viene detto e raccontato e quanto poi avviene nella vita reale delle persone con disabilità. Una distanza che riguarda, a volte, quanto scritto nelle norme e la condizione concreta delle persone e delle loro famiglie.
Parliamo costantemente di “inclusione” e poi continuiamo a prevedere che il destino di migliaia di persone con disabilità sia quello di vivere solo insieme ad altre persone con disabilità e a degli operatori.
Non mancano certo le leggi a tutela dei diritti delle persone con disabilità, ma, alla fine, quello che riusciamo a offrire sono solo sostegni speciali e dedicati e non certo il rispetto dei loro diritti umani. Abbiamo forse imparato a usare parole universali, ma pur sempre per confinare il discorso sulla disabilità in un recinto speciale, quasi esclusivo.
Solo una parola è stata quindi una rubrica che, partendo dal significato originale di alcuni vocaboli, ha cercato di far emergere i diversi e differenti significati che vengono attribuiti loro quando è coinvolta la disabilità. In realtà ho sempre associato la parola “rubrica”, prima di tutto, alle pagine dove, una volta, si scrivevano i numeri di telefono degli amici e dei colleghi, ma così non è (Rubrica: s.f. – Nell’antica arte libraria, la terra rossa che serviva per tingere l’asticella centrale del volume, la custodia di esso e la membrana pendente del rotolo, nonché per scrivere le prime lettere, i titoli, le segnature e i richiami. “Est”. Sezione di un giornale, di una pubblicazione periodica, o anche di un programma radiofonico o televisivo, destinata alla trattazione di un particolare argomento e presente in tutte le edizioni del programma o della pubblicazione).
La parola “rubrica” contiene quindi un riferimento alla terra e, in particolare, alla terra rossa. In effetti questa rubrica è stata per me un’occasione molto concreta e “terrena” di comprendere alcuni dei diversi meccanismi culturali che costringono molte persone con disabilità in una condizione di inferiorità, tanto che ci permettiamo, senza alcun problema, di definirle per tutta la vita sempre e solo “ragazzi”.
Posso solo augurarmi che la lettura di questi testi abbia permesso ad altri di compiere un percorso analogo. Perché la lotta per la giustizia e il rispetto di tutti i diritti umani di tutte le persone con disabilità ha bisogno dell’impegno e del coinvolgimento di molte persone: di tutti noi, ad esempio.