Si riaccende l’attenzione sull’influenza aviaria, soprattutto dopo la recente scoperta di un ceppo ad alta patogenicità in bovini da latte negli Stati Uniti. Il salto di specie rimarca la capacità dei virus influenzali di adattarsi e infettare nuovi ospiti, aumentando la necessità di sistemi di sorveglianza e risposta efficaci. Nonostante i rischi, attualmente non ci sono prove di trasmissione diretta tra bovini; le misure di controllo si concentrano sulla prevenzione del contagio e la protezione dei lavoratori esposti.
Ora che la pericolosità delle infezioni da Covid-19 è stata domata, anche se non completamente sconfitta (più di 3.000 nuovi casi notificati negli ultimi 30 giorni e un non trascurabile numero di ricoveri in ospedale), i virus dell’influenza aviaria si riaffacciano all’attenzione di chi studia l’orizzonte di prossime eventuali minacce pandemiche. Soprattutto da quando, il 25 marzo 2024, i funzionari federali del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti hanno annunciato di aver identificato un ceppo di influenza aviaria ad alta patogenicità in alcuni bovini da latte. Un salto di specie importante.
I virus dell’influenza sono dei grandi trasformisti per il loro genoma suddiviso in 8 segmenti, che codificano per 11 proteine. Durante la moltiplicazione virale i segmenti vengono riprodotti in moltissime copie per essere poi assemblati in nuove particelle virali. Se sono presenti virus influenzali di origini differenti, i segmenti possono riassortirsi diversamente dagli originali e produrre sottotipi e nuove varianti virali, dotate di differenti caratteristiche. Con queste capacità di produrre sempre nuove “formulazioni”, i virus influenzali sono in grado di infettare moltissime specie, dai pesci ai mammiferi, e di modificarsi continuamente.
In particolare per i virus di tipo A, due proteine sono cruciali per causare infezione e malattia e sono usate per classificarli nei diversi sottotipi: l’emoagglutinina (indicata con la sigla H) e la neuraminidasi (indicata con la lettera N). Sono state identificate 16 diverse emoagglutinine e 9 diverse neuraminidasi. L’emoagglutinina è responsabile dell’adesione delle particelle virali ai recettori delle cellule di specifici ospiti e così si spiega perché ogni sottotipo è in grado di infettare solo alcune specie. La neuraminidasi è invece un enzima necessario per liberare, dopo la loro moltiplicazione, le particelle virali nell’organismo infettato. I farmaci antivirali di elezione (come per esempio oseltamivir) sono inibitori della neuraminidasi che bloccano il rilascio delle particelle virali e quindi riducono la carica virale e la contagiosità degli infetti.
Solo i sottotipi H1, H2, H3, accoppiati in tre delle 144 possibili combinazioni di N1 o N2, sono adattati a infettare la specie umana e sono responsabili delle epidemie stagionali. Fin qui la situazione è talmente studiata e consolidata che ogni anno si fanno “previsioni” sui sottotipi che circoleranno nella stagione successiva e in base a queste proiezioni si formulano i vaccini stagionali. Anche quest’anno, a febbraio l’OMS ha raccomandato la nuova composizione vaccinale per la stagione 2024/2025 elencando i ceppi virali da inserire nell’aggiornamento della formulazione quadrivalente e trivalente e da poco è stata emanata la circolare ministeriale per la protezione contro l’influenza dal prossimo autunno. Le vaccinazioni inducono una risposta immune nei confronti di particolari sottotipi di H e N e ripetute ogni anno ampliano la protezione.
Nonostante la situazione dell’influenza stagionale sembri sotto controllo, è sempre in agguato il rischio di incursioni da parte di nuove varianti e di virus A provenienti da altre specie, il noto “spillover”. In effetti ancora non abbiamo chiarito da dove sia originata la pandemia di Covid-19, ma l’idea che un virus influenzale “salti” da una specie all’altra non ci sembra più improbabile. Sappiamo che gli uccelli selvatici sono il serbatorio naturale dei virus dell’influenza aviaria, sappiamo che molti di questi virus sono altamente patogeni per gli animali che infettano e hanno un’elevata letalità; sospettiamo che il virus che causò la terribile “spagnola” avesse geni di origine aviaria.
Con questi elementi a disposizione, e osservando la continua espansione dell’influenza aviaria, si rende necessario mantenere un elevato grado di attenzione, e disporre di buoni sistemi di sorveglianza e di risposta.
Tra i virus aviari il sottotipo H5N1 è quello che da più tempo è stato identificato come un potenziale candidato al salto di specie verso l’essere umano. I primi casi di infezione umana furono identificati nel 1997 a Hong Kong. Dal 2003 al 27 novembre 2023, sono stati segnalati a livello globale da 23 paesi un totale di 882 casi umani di infezione da influenza A(H5N1), di cui 461 decessi. Quasi tutti i casi di infezione umana da influenza aviaria A(H5N1) sono stati classificati come sporadici e collegati al contatto ravvicinato con uccelli infetti vivi o morti o ad ambienti contaminati dal virus. Nel 2020, un ceppo H5N1 (2.3.4 4b) ad alta patogenicità per gli uccelli, diverso da quelli che hanno circolato in precedenza, ha iniziato a diffondersi con gli uccelli migratori in molte parti dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa causando estese morie di uccelli. Nel 2021 gli stessi virus sono passati nel Nord America e nel 2022 nel Sud America.
Il documento congiunto FAO-OMS del 23 aprile 2024 segnala che nel frattempo è aumentata la frequenza di segnalazioni di infezioni in animali marini e terrestri diversi dagli uccelli, compresi alcuni mammiferi e animali domestici. Sono stati segnalati focolai epidemici in animali da pelliccia in Finlandia e in Spagna, confermando la possibilità di contagio tra mammiferi. Negli Stati Uniti hanno riscontrato infezioni in capre e mucche da latte e il ceppo H5N1 (2.3.4 4b) è stato identificato nella maggior parte dei casi. Infine, di nuovo in USA, l’evento più clamoroso per la sua numerosità: casi di infezioni da H5N1 in bovini da latte appartenenti a 67 diversi allevamenti in 9 diversi Stati ed elevate concentrazioni virali (anche maggiori rispetto a quanto riscontrato nell’apparato respiratorio) sono state rilevate nel latte prodotto.
Ancora le modalità di diffusione dell’infezione tra i bovini non sono state chiarite, ma la capacità dei virus di infettare mammiferi è acclarata, dimostrando l’avvenuto spillover dagli uccelli ai bovini. Una ricerca, non ancora verificata, suggerisce la suscettibilità dei bovini per un’abbondante presenza, nelle ghiandole mammarie, di recettori cellulari idonei all’infezione.
La buona notizia è che ancora non sembra che i virus siano in grado di trasmettersi per contagio diretto da un animale all’altro: viene quindi meno uno degli elementi necessari all’innesco di una epidemia anche tra gli animali, mentre si sospetta che le infezioni si siano diffuse attraverso contaminazioni meccaniche durante la mungitura.
Per ora, la risposta di sanità pubblica negli USA si è concentrata sulla limitazione dei contagi tra le mandrie di bovini e sulla sorveglianza dei lavoratori esposti ad animali infetti. Un’ordinanza federale prescrive che tutti i bovini da latte siano esaminati per la presenza di infezione da H5N1 prima di un trasferimento da uno Stato a un altro e siano tenuti in quarantena per 30 giorni dal loro arrivo.
Data l’assenza di evidenze circa le modalità di contagio dei bovini, uno dei punti critici sollevati è la mancanza di indicazioni chiare su come gestire le mandrie dopo la quarantena. Il personale che lavora a contatto con gli animali dovrebbe essere monitorato per identificare casi di infezione, ma la presenza di lavoratori clandestini non aiuta il processo. Inoltre, carenza di epidemiologi di sanità pubblica e scarsità di fondi dedicati vengono chiamati in causa in un’indagine dei CDC come ostacoli al monitoraggio del personale esposto al contagio. Le attività di sorveglianza su circa 350 persone hanno finora identificato 3 casi di infezione in lavoratori a contatto con bovini infetti in due diversi Stati. I quadri clinici osservati per le tre persone infette sono stati lievi (congiuntivite e in un caso tosse) e certamente sarebbero passati inosservati senza un’attenta sorveglianza.
Le valutazioni del rischio di infezione per la popolazione generale effettuate da OMS, CDC ed ECDC indicano un rischio molto basso. L’eventuale presenza di virus nel latte bovino è eliminata dalla pastorizzazione, per cui non ci sono motivi di allarme sanitario per le persone. Quanto sta accadendo, tuttavia, è l’ennesima occasione per ricordarci che la salute umana, quella animale e quella dell’ambiente sono legati indissolubilmente e che solo la sanità pubblica può mettere in campo sistemi di sorveglianza e di risposta efficaci, tenendo a bada anche inutili allarmismi.
fonte articolo e immagine: https://www.scienzainrete.it/articolo/influenza-aviaria-le-infezioni-nei-bovini-e-risposta-sanitaria/stefania-salmaso/2024-06-13