La guerra a Gaza, in corso da otto mesi, sta danneggiando gravemente le strutture sanitarie e sta creando una crisi di malnutrizione e malattie trasmissibili. Nonostante la gravità della situazione, le riviste mediche statunitensi sono rimaste in gran parte in silenzio. A differenza di quelle internazionali: un articolo su JAMA denuncia la mancanza di discussione e sottolinea l’importanza di un dialogo critico basato sulle prove, invitando le riviste mediche a superare l’autocensura e affrontare apertamente le crisi sanitarie legate ai conflitti.
La catastrofe provocata dagli ormai otto mesi di guerra a Gaza (oltre 35.000 morti, sfollamento forzato di 1,7 milioni di persone e almeno 450 attacchi alle strutture sanitarie, che hanno lasciato solo 15 dei 36 ospedali di Gaza in qualche modo funzionanti) coinvolge molteplici ambiti della medicina e della sanità, che vanno dalla salute infantile all’assistenza ostetrica, dalle malattie infettive al trauma psicologico. Lo sfollamento di civili e la restrizione all’ingresso e alla distribuzione degli aiuti umanitari hanno creato le condizioni per una grave malnutrizione acuta e per una carestia imminente e hanno provocato un netto aumento delle malattie trasmissibili: la morbilità e la mortalità per queste e altre cause continueranno ininterrotte per mesi, quand’anche il “cessate il fuoco” iniziasse subito.
Poiché rispondere alle crisi di salute pubblica dovrebbe essere un imperativo morale (oltre che un dovere professionale) per chi opera in campo medico, colpisce l’assenza di discussione circa l’attuale crisi sanitaria a Gaza nelle riviste mediche accademiche con sede negli Stati Uniti, paese che pure storicamente ha svolto un ruolo di primo piano nella regione, essendo il principale donatore sia di aiuti militari all’esercito israeliano sia di aiuti umanitari ai palestinesi. Al contrario di altre riviste extra USA, che hanno pubblicato diversi articoli relativi all’attuale guerra a Gaza, scritti con una varietà di prospettive professionali e con voci sia israeliane sia palestinesi, la stampa accademica statunitense è rimasta in gran parte in silenzio, in quest’occasione, mentre ha pubblicato articoli su altre crisi di simile natura, tra cui quelle in Ucraina e in Siria.
Nadir Ijaz, Anand R. Habib (entrambi di Yale), Matthew K. Wynia (bioeticista) e Lawrence O. Gostin (direttore dell’ O’Neill Institute for National and Global Health Law) lo rilevano in un articolo pubblicato sul Journal of the American Medical Association (JAMA) il 30 maggio. Convinti che limitarsi a testimoniare non sia sufficiente, gli autori citano il compianto antropologo medico Paul Farmer (colui che ha imposto nella letteratura antropologica l’espressione “violenza strutturale”): «Non si tratta solo di riconoscere la sofferenza degli altri. Si tratta anche di porsi la domanda: quanta di questa sofferenza è prematura o addirittura non necessaria, e cosa potremmo fare collettivamente per alleviarla?».
Tra le riviste mediche statunitensi con un fattore d’impatto di 10 o superiore, JAMA si distingue per aver pubblicato due viewpoint (qui e qui). Il viewpoint di Greenland, che proponeva alle riviste mediche una sorta di “moderazione” dei contenuti, suggerendo di evitare di discutere la politica della guerra negli articoli che trattano di assistenza sanitaria e di salute durante un conflitto, era stato corredato da un commento editoriale di Kirsten Bibbins-Domingo e Gregory Curfman (già caporedattore di Harvard Health Publishing e del New England Journal of Medicine) che, mentre assicuravano che JAMA, come altre riviste, pratica regolarmente la moderazione come parte del processo di editing, ma basata sulla qualità e sull’importanza dei contenuti scientifici piuttosto che su opportunità di allineamento, facevano notare che, dal momento che frequentemente i punti di vista sugli ostacoli o le disparità nell’assistenza sanitaria prendono in considerazione le forze sociali, culturali e politiche che danno loro forma, fare distinzioni quando si riportano le stesse questioni in tempo di guerra sembra comportare il rischio di censura o, nella migliore delle ipotesi, di incoerenza logica. Naturalmente, le riviste devono procedere con cautela quando è in gioco un conflitto ma, accettandoli, i redattori di JAMA avevano giudicato equilibrati entrambi gli articoli sul conflitto a Gaza, seppure su posizioni speculari.
Proprio richiamandosi all’intenzione di JAMA di non implementare alcuna forma di moderazione nell’affrontare le conseguenze sulla salute delle guerre, ma di ricercare il massimo dell’equilibrio e dell’imparzialità, Nadir Ijaz e colleghi ritengono che, laddove eventi legati a politiche nazionali o internazionali influenzino la salute pubblica, le riviste mediche hanno il diritto e il dovere di esprimere considerazioni accademiche basate sulle prove, specie in periodi in cui è diffusa la disinformazione. Per esempio, quando alcuni media popolari hanno messo in dubbio l’attendibilità dei rapporti ufficiali sulla mortalità palestinese, sottoporre i dati a revisione paritaria ha fornito le prove dell’accuratezza di questi rapporti; allo stesso modo, dovrebbe essere effettuata una contabilità accurata dei costi umani a lungo termine della guerra.
La stampa medica avrebbe un ruolo cruciale nella difesa della libertà accademica e del dialogo critico; eppure, sul tema della guerra a Gaza, l’autocensura spesso interviene ancor prima che i manoscritti raggiungano le scrivanie dei redattori delle riviste. Un recente sondaggio del Middle East Scholar Barometer, un progetto inter-universitario che mira a sondare le valutazioni degli studiosi statunitensi di Medio Oriente e Nord Africa su questioni critiche del giorno, ha rilevato che l’81% di loro sente il bisogno di autocensurarsi quando si tratta di criticare Israele e l’11% di essi lo fa quando si tratta di criticare i palestinesi; non è escluso che ciò sia la conseguenza dei casi (documentati) della messa a tacere istituzionale di singoli medici e ricercatori sanitari dopo il 7 ottobre.
In passato è successo che importanti riviste mediche abbiano riconosciuto la loro complicità in ingiustizie storiche attraverso quanto avevano o non avevano pubblicato (anche Scienza in rete ne ha parlato qui), ma la scelta di rimanere in silenzio di fronte a una tale crisi sanitaria fa dubitare che la medicina accademica abbia veramente imparato dai propri errori. A chi sostiene che debba mantenere la neutralità astenendosi dal pubblicare articoli relativi ad argomenti “politici” come la guerra e i disastri umanitari provocati dagli umani, gli autori dell’articolo di JAMA rispondono che persino la scelta di astenersi dal pubblicare è di per sé una decisione politica ed è una decisione intrinsecamente in contrasto con la missione medica.
I determinanti politici rafforzano i determinanti sociali e logistici della salute, come l’accesso al cibo, all’acqua potabile, all’alloggio e all’elettricità. La “violenza strutturale” e la deprivazione sociale e materiale che determinano le disuguaglianze sanitarie nei territori palestinesi occupati sono state ampiamente documentate per anni. Ignorare selettivamente questi fattori di disuguaglianza sanitaria e le barriere all’accesso all’assistenza in questi luoghi non farà altro che perpetuare il verificarsi di crisi umanitarie e di salute pubblica provocate dagli umani, lì o altrove.
Gli autori invitano, quindi, le principali riviste mediche con sede negli Stati Uniti a creare spazio per un dialogo critico, equo e basato sulle prove sull’attuale crisi a Gaza, anche per creare un precedente per future crisi simili. Come per qualsiasi argomento, dovrebbero essere garantite una verifica dettagliata dei fatti, la citazione dei riferimenti e la divulgazione dei conflitti d’interesse; i commenti dovrebbero essere equilibrati e, idealmente, costruttivi, riflettendo una gamma di prospettive basate sulle prove. A lungo termine, auspicano che le riviste progrediscano verso una rappresentanza razziale ed etnica diversificata nei comitati editoriali e degli autori ed effettuino verifiche su eventuali pregiudizi presenti negli articoli pubblicati. Creando spazio per il dibattito anche sugli argomenti più controversi, le riviste possono spingere le maggiori istituzioni mediche, le università, a fare lo stesso. Solo così la comunità medica accademica e i cittadini nel loro complesso possono andare oltre il semplice riconoscimento della sofferenza causata agli umani dagli umani e cercare i modi per mitigarla.
Crediti immagine: Emad El Byed/Unsplash
Simonetta Pagliani, medico di medicina generale dal 1981, è nata a Milano, dove ha studiato al liceo classico Berchet e poi all’Università Statale. È impegnata della didattica e nella formazione in medicina e collabora da molti anni con l’Agenzia editoriale e giornalistica Zadig.