Sempre che esistano due categorie di parole (quelle buone e quelle cattive), per esempio le parole-complimento e le parole-offesa, la questione ci mette di fronte a vari problemi. “Per favore, dimmi una parola buona”, ecco una richiesta che ci capita spesso di fare nel corso della nostra travagliata quotidianità, però sappiamo anche che non ci sono parole di per sé buone e parole di per sé cattive: eppure dobbiamo comunque riconoscere che, al di là delle singole parole, esistono i diversi modi e le diverse accentuazioni con cui le rivolgiamo a coloro ai quali parliamo.
Perfino le parole-insulto e le parole che offendono (inutile fare esempi, le conosciamo tutti quanti) possono essere rivolte agli altri con violenza o con un alone di ironia, con convinzione o solo per sollevare una reazione di difesa. Tuttavia, come si fa a negare che la parola “guerra” contenga un nucleo di negatività o che la parola “pace” si presenti, in un normale scambio comunicativo, con un tratto di positività? Occorre allora spingersi oltre e capire se abbiamo la possibilità di introdurre delle differenze che ci permettano, al tempo stesso, di accettare le parole e di metterle in discussione.
Buone o cattive che appaiano le parole quando entrano in una comunicazione reale, dovremmo saperle accogliere senza che suscitino immediatamente una nostra reazione, quella negativa nel caso delle parole cattive, ma anche quella positiva quando ci arrivano buone parole. Sta al pensiero critico, se lo abbiamo, di riuscire a suscitarne l’efficacia nell’attuale situazione in cui quasi sempre il dialogo rischia di tradursi in disputa, come purtroppo ci spingono a fare i dibattiti mediatici nella loro grande maggioranza. Come se la lite fosse ciò che davvero ci interessa, mentre la sintonia e l’accordo ci venissero quasi subito a noia.
Se ci mettiamo in una qualche consonanza con una possibile pratica di pensiero critico rivolta alle parole (e che dunque non le blocchi in sé stesse), allora dovremmo forse constatare che non ci sono parole davvero cattive e parole davvero buone e che perfino gli evidenti insulti non possono venire bloccati e usati nella loro nuda letteralità. Invece, siamo quasi sempre di fronte a un simile blocco linguistico.
Una proposta, che può sembrare a prima vista banale, consiste nell’imparare a usare le virgolette per qualunque parola, per esempio per parole spesso decisive come “verità” e “libertà”. Naturalmente, anche l’uso delle virgolette può diventare un gesto retorico o un’abitudine vuota di senso, ma scorgerne l’importanza è già un passo verso un’abolizione del normale aut aut che applichiamo tra l’aggettivo “buono” e l’aggettivo “cattivo”.
Senza questa mossa critica non si va da nessuna parte, ci si immobilizza in un atteggiamento che un tempo avremmo chiamato dogmatico e che oggi pratichiamo come se fosse assolutamente ovvio.
Al di là dell’automatismo retorico le virgolette indicano uno spazio di dubbio che può accompagnarsi a qualunque parola, anche a quella che ci può sembrare chiarissima e indiscutibile. Sono completamente chiare parole come “verità” e “libertà”? Difficile riuscire a rispondere sì a questa domanda: le usiamo “come se” fossero del tutto chiare, tuttavia dovremmo riconoscere che anch’esse chiedono, per essere intese, cioè per non essere fraintese, un atteggiamento di distanza da parte di chi le adopera (tutti noi e molto spesso).
Non c’è neppure bisogno di tirare in ballo riferimenti filosofici (come quell’idea di epoché che transita da Husserl a Basaglia) per capire l’importanza e la difficoltà dell’esercizio di sospensione che sto indicando: un esercizio (proprio di etica minima) che sembra diventare ogni giorno più estraneo e perciò sempre più necessario per non sigillare le parole impegnative che solitamente adoperiamo in uno sbarramento linguistico in cui magari troviamo qualche divertimento narcisistico, ma che ci impoverisce nella nostra capacità di vedere e capire le cose.
Ciascuno può fare su di sé un piccolo esperimento sulla velocità rischiosa con cui diamo per scontato il senso di ciò che consideriamo “vero” e di ciò che riteniamo “libero”. Altrettanto poco scontata è la divisione tra parole buone e parole cattive.
Chi sembra regalarti una parola buona può farlo in una maniera ovvia e retorica. Chi sembra affliggerti con una parola cattiva potrebbe anche aprirti la mente verso atteggiamenti di alleggerimento della tua vita.
fonte: https://www.news-forumsalutementale.it/parole-buone-e-parole-cattive-di-pier-aldo-rovatti/
[Pubblicato su “Il Piccolo”, 10 maggio 2024]