La salute di giovani transgender in mani transfobiche? di Eva Benelli, Maurizio Donati

A metà maggio il ministro della Salute e la ministra della Famiglia, natalità e pari opportunità hanno firmato un decreto che istituisce un tavolo congiunto sulla disforia di genere i cui 29 membri dovranno effettuare «una ricognizione delle modalità di trattamento». Un paio di giorni dopo la ministra ha esplicitato che per lei l’identità sessuale deve rimanere binaria, come vuole la biologia, dimostrando di ignorare quello che la biologia riconosce da tempo: un ampio spettro di identità di genere. Abbastanza per temere che l’approccio di lavoro di questo tavolo possa essere guidato più dall’ideologia che dalla ricerca scientifica.


Suona davvero un po’ beffardo. Solo pochi giorni fa il ministro della Salute Orazio Schillaci e la ministra della Famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella hanno firmato un decreto che istituisce un tavolo tecnico di approfondimento sulla disforia di genere «per una ricognizione delle modalità di trattamento di tale condizione nel territorio nazionale».

Qualche giorno dopo, il 17 maggio, l’Italia non ha firmato la “Dichiarazione sul continuo progresso dei diritti umani delle persone Lgbtqia+ in Europa” promossa dalla presidenza belga del Consiglio UE e sottoscritta da 18 paesi dell’Unione Europea. Per il nostro, titolare del dossier era di nuovo la ministra Roccella, che si è inoltrata in questo distinguo: «Il nostro governo ha firmato la dichiarazione europea contro omofobia, bifobia e transfobia. Non abbiamo, invece, firmato e non firmeremo nulla che riguardi la negazione dell’identità maschile e femminile», aggiungendo che sarà sempre contro «il gender e la possibilità di dichiararsi maschio o femmina al di là della realtà biologica».

A parte il fatto che non si capisce che cosa ci sia di male e in che cosa faccia danno se una persona “femmina” si dichiara “maschio” o viceversa, è proprio la ricerca sulla realtà biologica a cui si richiama la ministra ad aver riconosciuto, da anni, l’esistenza di un ampio ventaglio di identità di genere. Perciò il fatto che sul trattamento farmacologico della disforia di genere possa dire la sua una figura istituzionale come la ministra, senza titolo nello specifico, senza competenza biomedica e apparentemente vittima di una gran confusione, qualche preoccupazione la fa sorgere.

Una storia che viene da lontano

Per capire come siamo arrivati fin qui bisogna ricostruire una storia che dura ormai da circa un anno e mezzo e che intreccia pareri medici discordanti, discussioni e prese di posizione, ma (purtroppo) anche pregiudizi, posizioni ideologiche, narrazioni mediatiche superficiali e, talvolta, malafede.

Tutto comincia a gennaio dello scorso anno quando Sarantis Thanopulos, presidente della Società psicoanalitica italiana, firma una lettera indirizzata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni in cui esprime «grande preoccupazione» per il ricorso a farmaci che bloccano lo sviluppo puberale su minori con diagnosi di disforia di genere. Scienza in rete lo aveva raccontato qui.

Già allora l’opportunità di rivolgersi direttamente alla presidente del Consiglio invece di avviare un dibattito nella comunità scientifica aveva raccolto molte critiche, sia di metodo che di merito. E che si sia trattato di un probabile passo falso lo evidenzia il fatto che mentre sulla stampa di allora si parlava di una lettera alla presidente del Consiglio, oggi sul sito della SPI è possibile rintracciare quello che viene definito un comunicato dell’esecutivo a firma di Thanopulos, indirizzato, però al ministro Schillaci…

Comunque, allora, una mezza dozzina di società scientifiche presero posizione con un’altra lettera indirizzata alla presidente del Consiglio specificando le conoscenze su cui esisteva una buona evidenza scientifica e i limiti del possibile ricorso ai farmaci bloccanti della pubertà.

Prima di continuare a ripercorrere la vicenda, può essere utile soffermarsi sugli aspetti di definizione dell’identità sessuale su cui la ministra Roccella sembra non avere le idee chiare (come tanti, del resto, visto che si tratta ormai di abbandonare il vecchio terreno della distinzione binaria in favore di una realtà più complessa ma scientificamente riconosciuta).

Il mondo biomedico ormai riconosce ampiamente che sono tre i parametri che concorrono a definire l’identità sessuale: sesso, genere e orientamento sessuale. Al primo corrisponde il corpo sessuato maschio, femmina o con varianza intersessuale, al secondo il senso di sé, il sentirsi appartenere a universo maschile, femminile o a nessuno dei due e quindi a identificarsi come uomo, donna o persona non binaria. Infine il terzo aspetto riguarda la direzione dei propri desideri sessuali. Questi tre aspetti possono essere allineati e portare a un agevole riconoscimento di identità sessuale, oppure disgiungersi in modi e intensità diverse dando origine a tutte quelle lettere che compongono la sigla Lgtbqia+. Ma non c’è niente di ideologico o di “teorico” in questo, non c’è una scelta, un volersi ascrivere a una categoria o a un’altra, si tratta invece del riconoscimento della complessità biologica dell’appartenenza sessuale nella nostra e in altre specie, come peraltro confermano ormai anche molti studi etologici su animali più o meno vicini a noi Homo.

Si parla di incongruenza o diversità di genere, quindi, quando una persona sviluppa un’identità di genere differente da quella che le viene assegnata alla nascita in base alla sola osservazione degli organi genitali esterni, si parla perciò di persone transgender e gender diverse, in sigla (che forse aiuta e forse no) Tgd.

Come trattare la sofferenza?

«Essere Tgd è un aspetto previsto dello sviluppo umano e tutte le identità di genere possono essere considerate possibili variazioni dell’identità sessuale di una persona, come è stato dichiarato univocamente dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’Associazione psichiatrica americana. Le persone adolescenti Tgd possono provare una intensa sofferenza a causa della loro incongruenza di genere, sia psicologica che fisica. Il disagio psicologico sembra derivare in gran parte dal pregiudizio sociale e dallo stigma di coloro che non riconoscono l’esistenza di una varianza di genere come normale espressione dell’ampio spettro, in cui l’identità di genere può svilupparsi», così scrivono diverse società scientifiche a gennaio, ma di quest’anno, intervenendo nella bufera scatenata intorno al ricorso a un farmaco cosiddetto bloccante della pubertà, la triptorelina.

Nell’humus generato dalla discussione che è seguita all’intervento della SPI, è germogliata infatti un’altra piantina di scontro ideologico che rapidamente assume le dimensioni di un grande albero. In breve: il senatore Maurizio Gasparri, a partire da una non meglio precisata segnalazione, presenta un’interrogazione parlamentare in cui chiede di verificare le modalità con cui si somministra il farmaco per interrompere la pubertà presso il centro per il trattamento della disforia di genere dell’azienda ospedaliera universitaria Careggi. Uno dei pochi attivi in Italia. Come è facile immaginare, la pubertà può essere un momento di particolare difficoltà per una persona Tgd, già incerta e a disagio con il proprio corpo. Per ridurre questo disagio, che spesso sfocia in vera e propria sofferenza (al punto di aumentare significativamente il rischio di suicidio), e, soprattutto per consentire di guadagnare tempo e offrire la possibilità di esplorare ulteriormente il proprio percorso di affermazione di genere a chi ne sente la necessità, da qualche anno si è proposto l’uso di farmaci che hanno lo scopo di sospendere temporaneamente la progressione delle trasformazioni indotte dalla pubertà, farmaci peraltro impiegati da molto tempo proprio nella terapia della pubertà precoce.

In Italia la prescrizione della triptorelina è a tutt’oggi regolata dalla Determina AIFA n. 21756/2019 del 25 febbraio 2019, emanata dopo il parere favorevole del Comitato nazionale di bioetica in data 13 luglio 2018, che prevede che la prescrizione avvenga solo dopo attenta valutazione multiprofessionale, con il contributo di una équipe multidisciplinare e specialistica, composta da neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, psicologi dell’età evolutiva, bioeticisti ed endocrinologi. Inoltre servono l’assenso dall’adolescente e il consenso informato fornito dai genitori o comunque dai tutori legali. Insomma, un protocollo preciso che peraltro stabilisce anche che la terapia sia a carico del Servizio sanitario nazionale. E peccato che la Determina AIFA non preveda l’istituzione di un apposito registro nazionale dei pazienti trattati che contempli la valutazione degli esiti del trattamento sulla distanza: una ricerca formale, nazionale nella pratica, in grado di produrre evidenze e di migliorare gli approcci terapeutici.

Bufera triptorelina

All’intervento di Gasparri, opportunamente pubblicizzato, segue uno tsunami di articoli di cronaca, commenti, aneddoti da parte di familiari e utenti, prese di posizione. Soprattutto, il ministro Schillaci ordina un’ispezione che deve valutare l’adeguatezza dell’operato del centro di Careggi: l’accusa è che avrebbe somministrato il farmaco senza avvalersi della consulenza psichiatrica prevista dal protocollo. Quindi una negligenza nell’applicazione di cui individuare le cause e porvi rimedio. Per settimane la narrazione mediatica suona la grancassa, secondo il solito copione: giornalisti si improvvisano esperti, veri esperti ma di altri ambiti dicono la loro, si costruisce l’identikit di un gruppo di persone che per motivi indegni (quanto imperscrutabili) vuole imporre a bambini innocenti e a genitori sprovveduti un farmaco pericoloso e inutile.

Intendiamoci, come tutti i farmaci anche i bloccanti della pubertà hanno un profilo rischio/beneficio che va valutato e seguito nel tempo e le indicazioni possono cambiare con l’aquisizione di nuove conoscenze. Indipendentemente dall’indicazione d’uso della triptorelina, che si usi cioè per la disforia di genere o in altri contesti terapeutici, sono conosciuti alcuni effetti collaterali  (riduzione della densità minerale ossea, riduzione della massa muscolare, ginecomastia, nausea e vomito, diarrea, atralgia, insonnia, …) che ne consigliano un monitoraggio attento durante il trattamento. Allo stesso modo è corretto valutare le performance di una struttura sanitaria (audit). Tuttavia, la bufera comunicativa intorno all’ospedale Careggi si è ben presto allargata fino a mettere in discussione l’esistenza stessa della condizione transgender e, soprattutto, con la più cinica indifferenza rispetto all’impatto che questo modo di affrontare una possibile controversia scientifica e medica ha inevitabilmente su persone che in questo caso sono giovani, già esposte a uno stress e a uno stigma e in cerca semmai di conferme. E ai loro familiari.

I dubbi, quelli veri

Tra gli argomenti che sostengono la necessità di rivedere se e come continuare a ricorrere ai farmaci bloccanti della pubertà, ci sarebbe il fatto che diversi Paesi finora antesignani nella loro somministrazione hanno promosso una revisione delle indicazioni per il trattamento della disforia di genere. Tra questi la Svezia, che nel 2022 ha ridotto drasticamente la somministrazione dei bloccanti puberali ai minori con incongruenza di genere, ma dall’altra poco più di un mese fa, 17 aprile, ha introdotto una riforma per facilitare il cambiamento legale dei documenti e l’accesso ai trattamenti medici per l’affermazione di genere. Tuttavia, a pesare è soprattutto quello che è avvenuto in Inghilterra: non solo la chiusura della Tavistock, l’unica struttura che somministrava la terapia bloccante della pubertà, ma il completamento della revisione quadriennale sugli interventi medici per le persone giovani Tgd, la cosiddetta Cass Review. La relazione, che prende il nome da Hilary Cass, una pediatra in pensione nominata dal Servizio sanitario inglese, conclude che per la medicina affermativa del genere non esistono dati e dimostrazioni di efficacia affidabili e raccomanda perciò di limitare l’accesso ai farmaci bloccanti della pubertà.

Tuttavia, se in un primo momento questa revisione è stata considerata come una vittoria delle posizioni che si oppongono al trattamento farmacologico dei giovani Tgd, in realtà stanno ora affiorando numerose critiche metodologiche sui criteri utilizzati per mettere a confronto e valutare i diversi studi. Studi che, peraltro sono di piccole dimensioni e non recenti, come evidenziato da una metanalisi del 2017 e con pochi aggiornamenti (per esempio Luo).

E la vicenda di Careggi? Gli ispettori inviati dal ministro della Salute hanno prodotto una relazione da cui emergono diverse critiche al modo di operare del centro per il trattamento della disforia di genere, ma nessuna così determinante da impedire di continuare l’attività. Forse anche per aggirare questo risultato in fondo modesto (Gasparri insiste e ha già annunciato una seconda interrogazione) siamo quindi arrivati all’istituzione di quel tavolo di lavoro congiunto che con una schiera di rappresentanti dei due ministeri ed esperti espressi da varie società e ambiti scientifici raggiunge i 29 membri. Con tutto ciò, non si può fare a meno di notare alcune assenze, per esempio escluse quasi tutte le società scientifiche che hanno espresso posizioni opposte a quelle della SPI, e ancor meno rappresentato il mondo della medicina di genere, le parti che più potrebbero contribuire.

Le motivazioni sulla carta appaiono ineccepibili: «rilevata la disomogeneità con la quale i professionisti operano nel territorio nazionale e, conseguentemente, l’esigenza di disporre di linee di indirizzo che li supportino nel complesso percorso che va dalla diagnosi alle eventuali terapie dei pazienti disforici, perché giovani con disforia di genere, insieme alle loro famiglie, possano accedere al miglior supporto possibile, da parte del Servizio sanitario nazionale». C’è da chiedersi, però, rilevata come questa disomogeneità? Con quale indagine, con quale studio? L’ispezione a Careggi, riguarda, per l’appunto Careggi. Mentre le linee di indirizzo esistono, sono quelle della Determina AIFA del 2019.

E a proposito di Agenzia del farmaco, nel tavolo tecnico non compare, anche se qualche giorno prima che venisse istituito il presidente Robert Nisticò in audizione alla Camera ha dichiarato che AIFA era pronta a rivalutare l’uso della triptorelina nei bambini, come è giusto fare a fronte di nuove evidenze scientifiche. Lo stesso Nisticò, tuttavia, ha ricordato anche che fino ad aprile scorso l’attività di farmacovigilanza non ha riportato «alcuna segnalazione di eventi avversi nell’uso del medicinale tra i 10 e i 18 anni».

Insomma, un tavolo di lavoro numeroso, con l’obiettivo di realizzare una ricognizione delle modalità di trattamento della disforia di genere nel territorio nazionale «inclusi eventuali aspetti giuridici connessi» che lavorerà senza risorse aggiuntive, a fronte di una disomogeneità di utilizzo che non si sa come sia stata rilevata, senza segnalazione di eventi avversi e alla luce di modificati orientamenti internazionali su cui cominciano a comparire dubbi. Un tavolo tecnico, inoltre, che include componenti senza competenza di valutazione dell’uso dei farmaci e dichiaratamente sostenitrici della inesistente “teoria del gender”. Non sembrano buone premesse.

fonte: https://www.scienzainrete.it/articolo/salute-di-giovani-transgender-mani-transfobiche/eva-benelli-maurizio-bonati/2024-05-20

Print Friendly, PDF & Email