Quale Europa? di Elena Granaglia

Elena Granaglia richiama i punti salienti del Rapporto Letta e del Rapporto Draghi, come anticipato a La Hulpe, che certamente influiranno sul dibattito su ‘Quale Europa’ e sottolinea due omissioni: come confrontarsi con i movimenti migratori e come collegare la ricerca della pace – ragion d’essere del progetto europeo – con il rafforzamento della difesa europea. Inoltre si interroga su come l’auspicato ampliamento della scala delle imprese e del mercato finanziario europeo si rapporti con una crescita inclusiva e una equa doppia transizione.


Nei giorni scorsi Enrico Letta ha presentato il Rapporto Much more than a market – Speed, security, solidarity redatto su mandato del Consiglio europeo. Quasi contemporaneamente, a La Hulpe, Mario Draghi ha prospettato le linee di fondo del Rapporto sulla Competitività in Europa affidatogli dalla Commissione europea che consegnerà dopo le elezioni europee di inizio giugno. La proposta di Letta è ovviamente più dettagliata – essendo già incorporata in un Rapporto. Le indicazioni di Draghi delineano, comunque, il senso di marcia ricercato. Il peso degli autori fa presagire ricadute non di poco conto per l’elaborazione di una visione e di una piattaforma di centro e di centrosinistra, da opporre alle destre nazionaliste. È, dunque, oltremodo urgente confrontarsi con entrambe le posizioni.

Incominciamo dal Rapporto Letta. I punti salienti mi paiono i seguenti. Primo, il mercato unico deve diventare uno spazio genuinamente europeo. L’Unione non può più limitarsi a essere lo sbocco per l’offerta di beni, servizi e fattori produttivi che, di fatto, restano ancorati ai singoli paesi-membri. Le sfide della doppia transizione e dei cambiamenti geopolitici richiedono un’economia autenticamente europea. A tal fine, serve introdurre regolazioni sostanzialmente comuni. Serve completare l’unione del mercato dei capitali e l’unione bancaria. Serve sviluppare imprese europee e beni pubblici europei. Serve, in altri termini, creare un’Unione dei Risparmi e degli Investimenti. Non serve al contrario facilitare il ricorso, a livello nazionale, agli aiuti di Stato.

Attenzione particolare, nel Rapporto, è dedicata al mercato dei capitali e ai settori delle comunicazioni, dei trasporti, dell’energia e della difesa. Più in particolare, rispetto al mercato dei capitali, il punto di partenza sono i 33 trilioni di euro detenuti in risparmi privati, di cui 34,1% immobilizzati in depositi bancari e una buona parte (circa 300 miliardi) dirottata nel mercato finanziario degli Stati Uniti. Trattenere tali fondi nell’Unione è dirimente al fine del finanziamento della doppia transazione. Il Rapporto delinea al riguardo un piano dettagliato di rafforzamento degli investitori istituzionali europei e con essi di fondi europei (fra cui anche un fondo finalizzato alla realizzazione di una nuova assicurazione pensionistica supplementare pan-europea) e sollecita la creazione di una borsa europea per il “deep tech”. Come negli Usa, le agevolazioni fiscali dovrebbero giocare un ruolo di stimolo. Rispetto alla difesa, occorre invertire la rotta. “Nel sostenere la resistenza ucraina, gli europei hanno speso somme ingenti, ma circa l’80% di questi fondi sono stati spesi per materiali non europei. Al contrario, gli Stati Uniti hanno acquistato circa l’80% delle attrezzature militari utilizzate …. direttamente da fornitori americani, una differenza netta che evidenzia la debolezza del nostro approccio. Sostenere i posti di lavoro e le industrie in Europa, piuttosto che finanziare lo sviluppo industriale dei nostri partner o rivali, deve essere un obiettivo primario quando si spende denaro pubblico.” La via prospettata è la creazione di un Mercato comune per l’Industria della difesa e della sicurezza.

Secondo, una quinta libertà va aggiunta alle tradizionali quattro libertà di movimento: è la libertà di “indagare, esplorare e creare per il bene dell’umanità senza confini e limitazioni disciplinari o artificiali”, investendo nella conoscenza, nell’istruzione e nella formazione senza confini. Tale quinta libertà “comporta l’inserimento dei motori della ricerca e dell’innovazione al centro del mercato unico, promuovendo così un ecosistema in cui la diffusione della conoscenza favorisce la vitalità economica, il progresso sociale e l’illuminazione culturale”.

Terzo, occorre semplificare/ridurre le procedure di regolamentazione. Lo sviluppo dei mercati finanziari, l’investimento in conoscenza e la semplificazione amministrativa sono cruciali anche per le piccole e medie imprese. Pur riconoscendo l’importanza della scala in diversi settori, il Rapporto Letta è, infatti, molto attento al ruolo delle piccole e medie imprese in quanto ossatura del sistema economico europeo.

Infine, occorre continuare a sostenere la dimensione sociale. Come scrive il Rapporto “pur promuovendo la crescita economica, il mercato unico potrebbe aver contribuito inavvertitamente all’aumento del divario di ricchezza, con le componenti più ricche che hanno potuto godere di maggior benessere a scapito di quelli meno abbienti. Potrebbe anche aver contribuito alla privatizzazione dei servizi sociali, con una maggiore attenzione al profitto piuttosto che alla qualità del servizio e al benessere”…. Il che richiede di “ 1) estendere i benefici del lavoro a un maggior numero di persone; 2) evitare una corsa al ribasso; 3) preservare i benefici del lavoro”. Innovativo e interessante è anche il richiamo alla libertà di rimanere, l’altra faccia della libertà di movimento. Il che sottolinea il ruolo delle politiche di coesione, da sempre al cuore del progetto europeo, nonché delle piccole e medie imprese, spina dorsale dei territori.

Il discorso di Draghi rafforza ancor più l’urgenza di uno spazio di mercato genuinamente europeo. Anziché farsi concorrenza fra di loro i paesi europei devono giocare uniti sulla scena globale. Mentre il Rapporto Letta richiede, sì, di spostare produzione dagli Usa in Europa, ma afferma anche una visione cooperativa delle relazioni internazionali, le parole di Draghi riflettono un approccio geopolitico basato su una visione più conflittuale nei rapporti internazionali. La Cina “mira a catturare e internalizzare tutte le parti della catena di approvvigionamento di tecnologie verdi e avanzate e sta garantendo l’accesso alle risorse necessarie…. minacciando di indebolire le nostre industrie”. Gli Stati Uniti “utilizzano il protezionismo per escludere i concorrenti e dispiegano il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere catene di approvvigionamento”. L’Unione deve, allora, farsi sentire, sviluppando una “strategia per garantire di avere le risorse e gli input di cui abbiamo bisogno per realizzare le nostre ambizioni senza aumentare le nostre dipendenze”. “In un ambiente internazionale favorevole, abbiamo fatto affidamento sulla parità di condizioni a livello globale e su un ordine internazionale basato su regole, aspettandoci che altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa”. … Ci manca una strategia su come tenere il passo nella corsa, sempre più spietata, per la leadership nelle nuove tecnologie…. Ci manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da condizioni di disparità globali dovute a asimmetrie nella regolamentazione, nei sussidi e nelle politiche commerciali”.

Draghi, inoltre, sottolinea ancor più di Letta l’importanza della scala nelle dimensioni di impresa. Per competere nel mondo globale, ci viene detto, abbiamo bisogno dell’equivalente europeo delle grandi imprese statunitensi. Le piccole e medie imprese non sono considerate. E, ancora, tranne due brevi cenni, uno iniziale ed uno finale, Draghi, diversamente da Letta, non entra nella dimensione sociale.

A prescindere dalle distinzioni, le due posizioni condividono alcuni elementi di fondo che mi paiono critici. I primi due elementi critici rappresentano omissioni. È sostanzialmente omesso il tema delle migrazioni dai paesi extra-europei. Letta non ne parla. Draghi riconosce la questione, ma aggiunge che, dato “un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione, occorre trovare (le) competenze al nostro interno”. Con le guerre ai confini dell’Unione e nel Medio Oriente e gli attuali 700 milioni di africani con meno di 20 anni possiamo ignorare la questione? Peraltro, non dimentichiamo che anche negli Usa la crescita del Pil è stata favorita dall’immigrazione.

È altresì omessa una discussione su come l’Unione debba mantenere fede ad una delle sue principali ragioni d’essere, favorire la pace del mondo. La difesa serve certamente alla pace, ma la ricerca della pace non può essere ridotta al rafforzamento della difesa come traspare nelle due posizioni esaminate. Come scrive Oz (2019), i bastoni servono. “Ma nessuna ferita si cura con un bastone. Sono cent’anni che tutti i sapientoni del mondo ci dicono: Dai, un’altra botta e si chiude la faccenda, tutto va a posto. No. Una ferita va curata. Non la si cura in un giorno e neanche in una settimana. Ma a un certo punto bisogna cominciare. Si cerca il punto di partenza … Prima di tutto bisogna trovare il linguaggio della cura. Che non è quello dell’oppressione, né quello della deterrenza, non è la lingua del ‘dare una lezione’ e neanche quella di ‘una volta per tutte’ e del ‘se la buscheranno di santa ragione’. È la lingua della cura.”

Il terzo elemento critico concerne la fiducia in un rafforzato mercato europeo, e nella conseguente capacità di stimolo alla produttività, quale veicolo di benessere sociale di fronte alle sfide della doppia transizione. Da un lato, anche ammettendo che il nuovo mercantilismo europeo (così diverso dalla visione del libero commercio che animò lo sviluppo del progetto europeo) favorisca la crescita, nulla assicura che i frutti di una maggiore produttività siano equamente ripartiti. Certo, Letta sostiene la dimensione sociale e Draghi, benchè in modo sbrigativo, vi fa cenno. Ma, a prescindere dalle indicazioni di Letta a favore di una previdenza privata agevolata fiscalmente – non proprio un rafforzamento della dimensione sociale -, l’assunto comune soggiacente appare la persistente accettazione di una logica dei due tempi, prima occupiamoci della crescita e poi della distribuzione. Non importa se la stessa Agenda sociale delle Nazioni Unite ha ripudiato tale logica a favore dell’adozione dell’obiettivo della crescita inclusiva. Detto in altri termini, ai fini di una minore disuguaglianza economica, dirimente è come si cresce. Se si cresce indebolendo costantemente il potere della stragrande parte dei lavoratori, allora quei lavoratori non potranno non avere difficoltà anche a chiedere compensazione, come la storia ci dimostra. E, comunque, compensare ex post gli svantaggi è cosa ben diversa dal prevenirli attraverso una democratizzazione dell’economia.

Dall’altro lato, la doppia transizione investe scelte che vanno ben oltre la decisione di produrre un bene piuttosto che un altro. Le tecnologie digitali, ad esempio, possono essere dirette verso la promozione dell’automazione oppure in quella della ricerca di nuove complementarità con il lavoro o, ancor più precisamente, con la qualità del lavoro. Possono essere sviluppate al fine di favorire il controllo individuale sui dati oppure il controllo collettivo e, con esso, una maggiore democrazia. E, ancora, gli investimenti farmaceutici possono essere orientati allo sviluppo di farmaci di basso valore aggiunto per la salute, ma di elevato mark up per le imprese, oppure di farmaci con un maggior valore aggiunto per la salute e ampiamente accessibili dalla popolazione, o, più complessivamente, gli investimenti sanitari possono privilegiare tecnologie a elevato beneficio sociale, quali procedure tese alla prevenzione, oppure tecnologie a minor valore, quali quelle ad alta tecnologia per trattamenti in fase avanzata delle malattie (sul complesso di questi e altri rischi, cfr. fra gli altri il recente contributo di Acemoglu).

Limitarsi a rafforzare il mercato europeo in sé non risponde, dunque, alle domande di crescita inclusiva e di una doppia transizione in grado di condividere il più possibili i benefici del cambiamento. Anzi, i rischi di misallineamento fra benessere sociale e massimizzazione del profitto appaiono elevati, tanto più alla luce del rafforzamento della scala delle dimensioni di impresa auspicato, seppur con distinzioni, da Letta e da Draghi, nonché del rafforzamento, anch’esso auspicato da entrambi, del settore finanziario. Più le imprese sono grandi maggiore è il loro potere di mercato e, con esso, il potere di estrazione di rendite e di deterrenza dei possibili meccanismi riequilibratori ad opera della concorrenza. Al contempo, maggiore è il peso dell’economia finanziaria, maggiore è l’influenza degli azionisti a discapito della voce di chi lavora e delle comunità. Il che non significa che “piccolo è bello”. Occorre, tuttavia, contrastare il potere di mercato grazie alla tassazione dei profitti; una legislazione a favore del lavoro e della contrattazione collettiva; una robusta azione dell’anti-trust; una regolazione dei diritti di proprietà intellettuale in grado di limitarne gli abusi, un accentuato ruolo della collettività nella definizione della direzione dei cambiamenti (sul potere di mercato nel capitalismo contemporaneo, sui suoi costi sociali, economici e politici nonché su vie per farvi fronte, cfr. fra gli altri Kurz).

Anche l’intervento pubblico non è, ovviamente, privo di limiti. Passi in avanti sono, però, stati fatti nelle visioni della politica industriale, capaci di evitare i costi del dirigismo. Il libro del Forum Disuguaglianze e Diversità, Quale Europa. Conoscere, discutere scegliere (Donzelli, 2024), offre, ad esempio, alcune indicazioni. In ogni caso, su un punto, penso, dobbiamo essere chiari. Se il pubblico non è all’altezza degli obiettivi di benessere sociale, non pensiamo di trovare la risposta nei mercati. Al contrario, il rischio di elevati costi sociali è, esso stesso, molto elevato.

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