Conservare la natura funziona! di Laura Scillitani

Siamo ancora in tempo: possiamo salvare le specie a rischio di estinzione e ripristinare ecosistemi danneggiati, regalando loro una nuova vitalità, e molto è già stato fatto, grazie alle azioni di conservazione, come dimostra uno studio pubblicato su Science.


Troppo spesso, di fronte ai crescenti tassi di scomparsa di specie (sono 44.000 quelle che rischiano di estinguersi secondo la IUCN, unione internazionale per la conservazione della natura) si rischia di vedere solo il bicchiere mezzo vuoto, e di giungere all’errata conclusione che sia inutile investire soldi e tempo per la conservazione. Niente di più sbagliato: lavorare per la biodiversità premia e fa ottenere risultati tangibili. Lo dimostra un articolo pubblicato su Science lo scorso 25 aprile che ha analizzato l’efficacia degli interventi di conservazione su scala globale, dimostrando che agire a favore delle specie e degli ecosistemi funziona ed è estremamente più fruttuoso dell’inazione.

«La domanda a cui volevamo rispondere con questa analisi è proprio: la conservazione funziona davvero?», dice Penny Langhammer, prima autrice dello studio e vicepresidente esecutivo della ONG Re:wild, per la quale dirige i programmi di conservazione a livello globale. «Abbiamo quindi confrontato due scenari: quello che è successo intervenendo per la tutela delle specie e cosa invece si sarebbe verificato se non avessimo fatto nulla. Esistono diversi studi che valutano l’efficacia dei singoli interventi, ma è la prima volta che questa analisi viene fatta su scala globale, analizzando gli effetti delle misure di conservazione sulla biodiversità a diversi livelli, genetica, specie e ecosistemi, e nel corso del tempo. E i risultati sono chiari: nella maggior parte dei casi le azioni di conservazione beneficiano in modo significativo la biodiversità».

I ricercatori hanno analizzato i risultati di 186 articoli scientifici, relativi a ben 665 interventi di conservazione distribuiti nel tempo a livello globale. Questo ha permesso di valutare l’efficacia di un’ampia gamma di azioni intraprese da fine Ottocento ad oggi. Nei due terzi dei casi esaminati, le misure di conservazione adottate hanno invertito la rotta o quantomeno rallentato significativamente il declino della biodiversità. Si sono rivelati particolarmente efficaci gli interventi di controllo e eradicazione delle specie esotiche (dette anche “aliene”) invasive, la gestione sostenibile degli ecosistemi, il ripristino degli habitat e l’istituzione delle aree protette.

La gestione delle specie invasive promuove la biodiversità

«Le specie aliene invasive sono una delle principali cause delle estinzioni cui abbiamo assistito negli ultimi cinquecento anni, il motivo di un drammatico declino della biodiversità. Ma dove si interviene con la gestione, i risultati sono incredibili e rapidi: le popolazioni di specie native tornano a essere vitali», afferma Langhammer. «L’eradicazione, il controllo e la gestione delle specie esotiche invasive permette di invertire gli attuali trend di perdita di biodiversità, salvando potenzialmente centinaia di specie dall’estinzione», commenta Piero Genovesi, responsabile del Servizio per il coordinamento della fauna selvatica di ISPRA e Chair del gruppo specialistico sulle specie aliene invasive della IUCN, nonché coautore dell’articolo. Un esempio lampante viene dalle isole Key West, piccolo arcipelago caraibico a largo della Florida. Le candide spiagge dalla sabbia fine hanno smesso di essere un posto sicuro per le tartarughe marine a causa di procioni e maiali rinselvatichiti: prima del 2006 quasi nessuna tartarughina riusciva a nascere o a correre indenne verso il mare. La stessa sorte toccava a diverse specie di uccelli marini nidificanti sull’isola. Il controllo dei predatori nelle isole di Cayo Costa e North Captiva ha dato risultati immediati e positivi, con un significativo e rapido aumento dei nidi e delle schiuse delle uova. «Sicuramente sulle isole gli interventi sono più consolidati e più strutturati, in particolare quelli di eradicazione, ma il controllo delle specie invasive è risultato molto efficace anche in territori estesi. Un esempio è quello della Salvinia molesta, una pianta acquatica invasiva che in Africa era un grosso problema, e che adesso è tenuta sotto controllo con un agente biologico, un parassitoide specifico della pianta che riduce il livello di invasione», dice Genovesi. Salvinia molesta è una felce acquatica d’origine brasiliana, esportata a scopo ornamentale. Cresce in modo estremamente rapido, può raddoppiare di massa in pochi giorni, formando sulle acque stagnanti un tappeto denso che altera il flusso delle acque e limita i livelli di luce ed ossigeno con un forte impatto sulle specie native che vivono in quelle acque e provoca problemi alle persone, limitando l’accesso all’acqua e danneggiando i sistemi di irrigazione.

Lo scorso settembre IPBES ha pubblicato un report sulle specie aliene invasive, alla cui realizzazione hanno contribuito 86 ricercatori da tutto il mondo, che hanno raccolto e analizzato 13.000 articoli scientifici sull’argomento. Sono ben 37.000 le specie animali e vegetali trasportate per l’azione umana, volontaria o involontaria, in luoghi diversi da quelli di origine; tra queste 3.500 sono invasive, cioè in grado di insediarsi con successo nel luogo in cui arrivano a danno delle specie locali. Le specie esotiche invasive sono state la causa di oltre 1200 estinzioni locali di specie native, e sono fonte di gravi problemi per le comunità locali. Il fatto che però il numero di queste specie esotiche invasive sia tutto sommato “contenuto” rende altamente fattibile, secondo gli esperti IPBES, un intervento risolutivo che ne argini la minaccia. «Parliamo di specie esotiche invasive, in realtà è più corretto parlare di popolazioni esotiche invasive», chiarisce Genovesi. Ci sono specie che diventano esotiche invasive in un determinato luogo in cui sono state introdotte, ma ovviamente non lo sono nel loro luogo originario. Per esempio, l’ermellino, che in Italia è una specie tutelata e importantissima in Nuova Zelanda ha sterminato tantissime specie autoctone, causando estinzioni. «Una cosa importante da chiarire è che noi combattiamo una frazione minima delle specie aliene che sono quelle che causano grossi danni. Ed è possibile mettere sotto controllo questa minaccia, purché si faccia uno sforzo globale per adottare politiche più stringenti, come investire risorse adeguate e collaborare per creare delle politiche di biosicurezza nazionali. Questo richiede ovviamente un aumento molto forte dell’attenzione, della sensibilità, degli investimenti, delle politiche» commenta Genovesi.

Le aree protette funzionano ma bisogna investirci davvero

«Le aree protette sono misure di conservazione molto efficaci, se sono gestite in modo equo ed efficace e dispongono di risorse adeguate. Altrimenti sono solo linee su una mappa, parchi di carta», afferma Penny Langhammer. «Se le aree protette fossero sempre ben finanziate e ben gestite, vedremmo un tasso di successo ancora maggiore per questo intervento nel ridurre la perdita di biodiversità». I risultati di aree protette ben amministrate e dotate di fondi si vedono, e consentono di ridurre la perdita di habitat e il consumo di suolo, diminuire quindi la pressione antropica e il rischio di estinzione di specie chiave. Il problema è che invece moltissime aree protette sono di fatto, come dice Langhammer, solo linee su carta, perché non dispongono di adeguato personale, fondi e pianificazione degli interventi di conservazione da attuare. Anche in Italia sono molte le aree protette, soprattutto quelle marine, che mancano della effettiva messa in opera di misure di gestione a causa di un sottofinanziamento costante. Eppure il Mediterraneo è un mare ricco di biodiversità, e intensamente minacciato da inquinamento, sovrasfruttamento delle risorse e riscaldamento globale. D’altro canto, malgrado le tante lacune e costante carenza di finanziamenti adeguati, il sistema di aree protette italiane può essere considerato un esempio virtuoso per altri aspetti: «non abbiamo in Italia nessuna area veramente “incontaminata”, ma, proprio per questo, i nostri parchi sono un esempio di come integrare le attività umane alla tutela della natura, dove possiamo sperimentare tecniche di compatibilità anche molto avanzate» dice Genovesi.

«Dovremmo investire di più nella aree protette: non è necessario che siano governative, perché ci sono molti studi che dimostrano quanto siano efficaci per proteggere la biodiversità gli usi tradizionali delle popolazioni indigene e delle comunità, che spesso sono i migliori e più efficaci amministratori della loro terra e delle loro acque», dice Langhammer. In generale, la gestione sostenibile (e anche in questo caso bisogna che “sostenibile” non sia solo un aggettivo piacevole per il greenwashing) permette di trovare un compromesso tra utilizzo delle risorse e tutela della biodiversità. Un esempio arriva dal bacino del fiume Congo, dove un approccio di gestione forestale sostenibile ha favorito nel tempo una diminuzione della deforestazione di oltre il 70%. In modo simile, nelle aree abitate dalle comunità indigene amazzoniche e all’interno delle riserve, il tasso di perdita delle foreste è fino a venti volte inferiore che altrove. Ancora, puntare su pratiche agricole estensive, riduzione dell’uso dei pesticidi e differenziazione del paesaggio (siepi, pozze d’acqua, boschetti e siepi) consente di ospitare anche nelle zone rurali un ricco numero di specie. Per esempio l’adozione di pratiche agricole sostenibili in Scozia ha favorito la ripresa delle popolazioni di uccelli legati alle zone umide, come la pavoncella, la pettegola e il beccaccino.

In generale, il ripristino delle aree degradate è una azione importante che può dare nuova vita a ecosistemi impoveriti. L’eliminazione di barriere restituisce ai fiumi il loro naturale ruolo di corridoio ecologico: per esempio, tre anni dopo la rimozione di una diga si è osservato un notevole aumento del numero di specie e dell’abbondanza delle popolazioni in alcuni torrenti montani nel fiume Jidu, in Cina. Il ripristino dei mangrovieti nel Sud Est del Brasile, ha favorito una rapidissima ripresa degli invertebrati e di conseguenza delle specie che se ne cibano. Una diminuzione del pascolo e un restauro della vegetazione ripariale in Messico hanno consentito un aumento della popolazione di parula pettogiallo, un uccello passeriforme che come suggerisce il nome ha uno sgargiante piumaggio giallo intenso.

Nel tempo si migliora

L’efficacia delle misure di conservazione è andata via via migliorando: le azioni intraprese in tempi più recenti hanno una maggiore probabilità di successo. Una delle spiegazioni, secondo gli autori, è che stiamo facendo esperienza e imparando da essa. La biologia della conservazione è infatti una disciplina molto giovane, nata nel Novecento con lo scopo di sviluppare metodi e tecniche per fronteggiare la grave perdita di biodiversità a causa delle azioni umane. «Nel tempo i nostri metodi stanno diventando più sofisticati, e stiamo migliorando nel misurare l’efficacia delle nostre azioni, e anche a definire meglio quali sono gli obiettivi da raggiungere», dice Langhammer. La biologia della conservazione non è una scienza esatta e come in molti altri casi a volte si procede per tentativi, che servono per migliorare le azioni future. «Nei progetti più recenti il tasso di successo è più alto di quelli più vecchi» afferma Genovesi. «Nel caso delle specie invasive l’attenzione all’impatto degli interventi di controllo o eradicazione sulle specie non target è molto cresciuto, con tecniche sempre più selettive, o con lo spostamento temporaneo delle specie potenzialmente a rischio che vengono riportate nel luogo originario una volta completata l’eradicazione».

Non sempre le cose vanno per il verso giusto. Per esempio nel golfo di Mannar, in India, l’intervento per la rimozione dell’alga rossa invasiva Kappaphycus alvarezii, si è rivelato dannoso: nel tentativo di rimuovere manualmente l’alga si è contribuito involontariamente alla sua ulteriore diffusione anche in zone protette. Il motivo sta nel fatto che i frammenti creati nella raccolta erano in grado di sviluppare nuove alghe. Ma questo ha creato l’opportunità per aggiustare il tiro in altre situazioni simili, in Piemonte per esempio, spiega Genovesi, si è intervenuto sulla Ludwigia grandiflora, pianta anfibia che aveva invaso alcuni fiumi e che presenta problemi simili di diffusione, utilizzando reti che fungessero da barriera alla diffusione. «In casi in cui le azioni di conservazione non hanno funzionato, impariamo dai risultati. Quindi, in un certo senso, non lo consideriamo un fallimento, perché possiamo garantire che la volta successiva potremo fare meglio. E questo permette di sviluppare o sperimentare un metodo che abbia meno probabilità di avere un impatto negativo e che sia molto più probabile che abbia successo. Credo che questo dimostri quanto sia importante porsi la domanda sull’efficacia delle azioni di conservazione», commenta Langhammer.

Piccoli di coccodrillo nati grazie a un programma di riproduzione in cattività a Cuba. Foto © Robin Moore/Re:wild

L’importanza del fare conservazione oggi e domani

Applicare le misure di conservazione funziona, anche se a volte non si trova subito la via migliore per agire. È importante farlo ed è cruciale documentare quello che si fa per permettere agli altri di replicare le cose positive e di evitare di commettere gli stessi errori, e possibilmente cercare di superarli. Soprattutto per gli interventi più indietro nel tempo non ci sono studi che misurino l’efficacia delle azioni intraprese e confrontino il risultato con l’inazione. In altri casi, gli studi sono talmente pochi da non consentire una valutazione robusta dei risultati. Per esempio, troppo poche sono le informazioni sull’efficacia di interventi per la rimozione degli inquinanti o per l’adattamento ai cambiamenti climatici e, soprattutto in questo ultimo caso, purtroppo, probabilmente le ricerche mancano perché si sta facendo troppo poco nel concreto.

Interventi per cui manca una documentazione robusta dell’efficacia, ma che in molti casi hanno dato i loro frutti sono le reintroduzioni. Per esempio l’orice arabo, grossa antilope dalle lunghe e appuntite corna, estinto in natura nel 1972, oggi conta una popolazione di migliaia di individui grazie a programmi di riproduzione in cattività e rilascio in natura in diversi Paesi tra cui Oman, Arabia Saudita, Giordania. Anche il condor della California, grande avvoltoio dal piumaggio scuro e un’apertura alare di quasi tre metri, è stato salvato da una imminente estinzione (ne restavano circa una ventina in natura) grazie a un programma di riproduzione in cattività. E le reintroduzioni hanno giocato un ruolo chiave per molte specie di mammiferi erbivori anche in Italia, tra cui l’iconico caso dello stambecco alpino e del camoscio appenninico, splendidi animali delle alte vette montane, entrambi ridotti a una manciata di esemplari a causa di un troppo intenso prelievo venatorio, ed entrambi tornati a popolare gran parte delle zone in cui erano scomparsi grazie allo spostamento di alcuni esemplari dalle popolazioni relitte.

Alcuni interventi di conservazione sono difficili da digerire proprio per una fetta della società che ha a cuore la natura, o meglio, alcuni animali. L’eradicazione e il controllo delle specie aliene invasive animali è spesso causa di grossi conflitti sociali che rischiano di minare l’efficacia delle misure di conservazione stesse, che, come abbiamo visto funzionano invece molto bene e tutelano la biodiversità. Questo si verifica in realtà solo per alcune specie di mammiferi e uccelli aliene invasive, animali attraenti esteticamente e con cui è forse più facile empatizzare. Basti pensare al conflitto sociale generato in Italia dal controllo dello scoiattolo grigio, causa provata dell’estinzione locale dello scoiattolo europeo, o dal più recente caso dei mufloni dell’isola del Giglio, oggetto di un intervento di rimozione per la salvaguardia della vegetazione endemica insulare. Al contrario, il granchio blu o la zanzara tigre o la vespa velutina, per citarne qualcuno, non suscitano nessun tipo di risposta emotiva.

Uno degli argomenti principali degli oppositori agli interventi su alcune specie animali aliene è che la natura fa il suo corso, che noi siamo a tutti gli effetti parte della natura e che quindi sia lecito lasciar vivere queste popolazioni invasive, eliminarle è una stupida crudeltà. Ma è un argomento che semplifica la complessità della fitta rete di relazioni tra specie evolutesi nel tempo e che garantiscono la funzionalità degli ecosistemi, oltre a non tenere minimamente in conto del fatto che una estinzione è per sempre. «Tutto il campo della conservazione è mirato a rimediare agli impatti che abbiamo causato noi umani», dice Genovesi. «Non è che noi vogliamo cambiare i cicli naturali dei vulcani, delle maree, interveniamo solo dove l’uomo fa disastri. Tutto è naturale, la caccia è naturale, però certo, se poi stermini tutti i rinoceronti, forse intervenire per fermarla può essere una buona idea. L’uomo ha sempre lasciato i suoi residui fin da 10.000 anni fa nel terreno e nei fiumi. Però se ci sono industrie che rilasciano tonnellate di sostanze tossiche, possiamo essere d’accordo che regolamentarle sia una buona idea. L’uomo ha sempre portato con sé organismi nei suoi viaggi, certo, ma adesso sappiamo che da un capo all’altro del mondo, provoca disastri e che la forma più efficace di conservazione che possiamo attuare, è quella di limitare e togliere specie invasive, una volta presenti in un’area. Quando noi portiamo i ratti sulle isole, in poco tempo osserviamo l’estinzione di tantissime specie, basti pensare alle Galapagos. Il serpente bruno degli alberi, ha praticamente estinto quasi tutte le specie di uccelli presenti nell’isola di Guam. Se consideriamo che le cose che fa l’uomo sono parte della natura, allora questo ragionamento dovremmo estenderlo all’urbanizzazione, la caccia, l’inquinamento e la distruzione degli habitat naturali. Non credo che sia l’approccio giusto se vogliamo tutelare gli ecosistemi naturali. Capisco che le azioni che vengono fatte sulle specie invasive non siano affascinanti. È più bello liberare un uccellino dalla gabbietta che ucciderne uno, però abbiamo imparato nel corso degli anni che a volte liberare un uccellino può avere effetti negativi e che a volte togliere un animale esotico nelle prime fasi dell’espansione può essere molto positivo».

Ma il punto principale, sottolinea Genovesi è lavorare in modo efficace sulla prevenzione oggi e domani. Impedire l’ingresso di organismi alieni è la migliore strategia per la conservazione della biodiversità, e minimizza anche gli aspetti etici degli interventi. «Le azioni di conservazione in alcuni campi hanno senso soprattutto se lavoriamo su ambiti di prevenzione che non di cura degli impatti. Questo vale per le specie aliene invasive, per l’utilizzo sostenibile delle risorse con la regolamentazione della pesca e della caccia, la creazione di aree tutelate dove alcune attività umane sono limitate. Ma ovviamente in alcuni casi l’intervento è necessario per rimediare agli squilibri creati. Speriamo che prima o poi la Restoration law venga realmente applicata in Europa, potrebbe essere un buon segnale per cercare di arrestare la perdita di biodiversità». La Nature Restoration Law, è la proposta di legge europea che punta a un ripristino degli habitat danneggiati e a un uso sostenibile delle risorse, ma dopo un lungo, osteggiato e strumentalizzato percorso, oggi la sua approvazione è ferma a causa dell’opposizione di una serie di Paesi, tra cui l’Italia, l’Ungheria e la Polonia (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui).

Perché la conservazione funzioni ci vogliono politiche idonee, fondi strutturali adeguati e personale dedicato. «Speriamo che il nostro studio e altri documenti simili ispirino i governi e la società civile, i privati e le aziende a incrementare davvero gli investimenti in cose che funzionano come la conservazione per aiutare il pianeta e a porre fine agli investimenti che stanno lavorando contro di noi. Un esempio sono le sovvenzioni ai combustibili fossili, che, secondo i dati del 2022 sono state di 7.000 miliardi di dollari, che è una cifra enorme, 13 volte superiore alla somma più alta stimata per implementare un programma di conservazione globale per proteggere e ripristinare la natura», conclude Penny Langhammer. Ai governanti, ma anche a noi tutti, la scelta di investire nel futuro del pianeta, forse meno splendente nell’immediato del business as usual, ma sicuramente di una lungimirante luminosità.

Laura Scillitani – Si occupa di conservazione e gestione di grandi mammiferi da più di quindici anni. Si è laureata nel 2006 in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi di Bologna e nel 2011 ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Animali presso l’Università di Padova. Ha preso parte a progetti sull’ecologia dei grandi mammiferi in Svezia, Svizzera e Francia e collaborato con diverse aree protette italiane, regionali e nazionali (PN Gran Sasso e Monti della Laga e PN Abruzzo, Lazio e Molise) come tecnico faunistico dal 2011 al 2023. Nel 2020 ha completato con menzione di merito il Master “La scienza nella pratica giornalistica” presso La Sapienza Università di Roma. Al momento è communication manager per il progetto Life Wolf Alps EU presso il Muse, Museo delle Scienze di Trento e lavora come divulgatrice free-lance

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