Stamattina, mentre camminavo lungo Corso Italia (a Trieste n.d.r.) e stavo andando a messa, ho avuto una spiacevole occasione di incontrare una persona che conosco da parecchi anni, di cultura e classe sociale medio – alta, e ho avuto modo di percepire lo stigma da parte sua nei confronti della mia persona.
Lo stigma, questa etichetta, il pregiudizio che viene esercitato nella relazione dalle persone per le fragilità o disabilità che viviamo.
Incontro appunto questa persona, mi fermo un attimo per salutarla, la saluto trasmettendo, credo, la mia gioia di averla incontrata. A me fa molto piacere incontrare persone in strada e quando sono felice dell’incontro trasmetto gioia. La saluto quindi felice di averla incontrata. Mi saluta a mala pena, a voce bassissima, il linguaggio del suo corpo, in particolare la sua postura, trasmettono staticità, rigidità e immobilità. Sembra disinteressata, sembra avere un atteggiamento quasi indignato nell’avermi incontrato. La sua postura rigida e immobile è accompagnata da una certa distanza e da un’espressione dello sguardo che trasmette una certa severità. Io credo che con tutte le persone, imprescindibilmente, è sempre buona cosa che io sia educata e gentile, come mi ha insegnato la mia famiglia d’origine. Rimane in me una scia di felicità di aver incontrato una persona che conosco da parecchi anni. Chiedo gentilmente “come va?” pensando di essere gentile e simpatica con lei. Lei mi risponde “bene” con un tono della voce quasi di indignazione, come se fosse per lei ovvio che con lei va bene e come se il fatto che lei stia bene dovesse essere ovvio anche per me, ed è come se fosse quasi meravigliata da questa mia domanda per l’ovvietà che a parere suo dovrebbe trasparire ovverosia che con lei vada tutto bene.
Faccio un ulteriore tentativo, facendo un breve commento sul maltempo e sulla temperatura che è ancora fredda nonostante la stagione di primavera. Le sto parlando ma il suo volto, sempre immobile come il resto del corpo, è come se non fosse affatto interessato alle parole che pronuncio. Percepisco una sensazione di lontananza, come se la persona malgrado sia a mezzo metro da me, fosse distante anni luce dalla mia persona. E’ completamente muta, ma con lo sguardo rivolto per pochi attimi verso di me ed è come se non aspettasse altro che allontanarsi da me. Non proferisce alcuna parola. L’assenza della sua mimica facciale e la sua rigidità e immobilità mi trasmettono un’inutile tensione. Non reagisce alle mie parole, né dimostra di voler minimamente stabilire con me un contatto. Mi osserva per alcuni attimi costruendo tra me e lei un muro invisibile ma divisorio, è come se volesse segnare una divisione gerarchica tra lei e me. Capisco quindi che non è il caso di continuare ad incoraggiare da parte mia la conversazione. Non ha senso davvero. La saluto, le auguro buona giornata e mi allontano.
Per un po’ di tempo porto in me l’umiliante sensazione di essermi sentita inadeguata, stigmatizzata. Ci penso un attimo ed elaboro il pensiero che il problema è suo e non mio.
In chiesa ascolto il sacerdote che celebra la messa e prego per tutte le persone che ingiustamente stigmatizzano gli altri per un motivo o per l’altro, affinché possano cambiare atteggiamento nei confronti dell’altro, fragile o disabile, accogliendolo come una persona con dignità e diritti come qualsiasi altro cittadino.
fonte: https://www.news-forumsalutementale.it/stigma-di-elena-cerkvenic/