«Quando la notte mi sveglio il mio pensiero va lì. Mi chiedo che ne sarà di mio figlio quando non ci saremo più noi a curarlo». «Quando sono al lavoro e penso che mia moglie è con lui sono in ansia e cerco tutti i pretesti per passare da casa, per controllare che non sia successo nulla». «Quando vedo piangere mia moglie per il futuro di nostra figlia, mi vergogno a dirlo, ma faccio brutti pensieri»…
Vi inviterei a soffermarvi qualche minuto su queste parole, e cercare di comprendere la paura, l’ansia, il dolore, il dramma, che vivono queste famiglie.
Questo è quanto, troppo spesso, mi sento dire in lacrime dai familiari delle persone con patologie psichiatriche. Purtroppo il disagio psichico è in costante crescita. Il 32% della popolazione mondiale presenta problemi di salute mentale, ed è la prima causa di invalidità. In Italia la percentuale è del 28% con una crescita di 6 punti rispetto al 2022. Circa 9 milioni sono le persone interessate, di cui il 44% degli occupati sta valutando di lasciare il lavoro. I disturbi alimentari nel 2023 sono stati causa di morte per 3.780 giovani, mentre il Covid ha causato una vera e propria epidemia di problemi psicologici, più o meno gravi, che hanno investito soprattutto i più giovani. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, dichiara un aumento del 35% dei disturbi d’ansia e depressivi. Un quadro allarmante, alimentato da una grave carenza di risorse economiche, di servizi e di personale, il tutto mentre nella società cresce lo stigma, quotidianamente alimentato dai fatti di cronaca. Il pregiudizio si è così ampiamente diffuso nel mondo del lavoro, spingendo la quasi totalità delle aziende a rifiutarsi di assumere lavoratori con questa disabilità. Eppure il lavoro per loro è una terapia. Con l’impegno lavorativo escono dall’isolamento, ricostruiscono un’immagine di sé, riconquistano un ruolo sociale, superano le loro difficoltà relazionali e riacquistano una vita familiare spesso devastata. Centinaia di volte mi sono sentito dire dallo psichiatra, dall’assistente sociale, dall’educatore e soprattutto dai familiari, che la situazione dopo l’inserimento lavorativo, era notevolmente migliorata, che «ora è un’altra vita».
Purtroppo oltre il 25% degli iscritti al Collocamento Disabili appartiene a questa categoria di disabilità, e a malapena l’1% avrà una proposta di lavoro.
La società, in continua e rapida trasformazione, unita ad una tecnologia invasiva che condiziona ogni attimo della nostra esistenza, ci impone continui adeguamenti, non lasciandoci metabolizzare e consolidare qualsiasi apprendimento e abitudine. Sempre più viviamo una quotidianità che non ci mostra il futuro che ci attende. Camminiamo la nostra vita avvolti in una nebbia sempre più fitta, che ci costringe nell’incertezza e nell’ansia verso quello che incontreremo; che ci esclude e preclude la possibilità di vedere e vivere una solidarietà con gli altri. Queste condizioni non possono che accrescere l’individualismo e la preoccupazione, facilitando l’ingresso nel mondo della malattia invisibile. Invisibile in sé, e spesso per la quasi totalità degli altri, ma dolorosa e devastante per chi la subisce.
A tutto ciò si aggiungono alcuni problemi riconducibili al sistema di collocamento e alla normativa vigente. L’articolo 9, comma 4 della Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) stabilisce che «i disabili psichici vengono avviati su richiesta nominativa mediante le convenzioni di cui all’articolo 11. I datori di lavoro effettuano le assunzioni ai sensi del presente comma hanno diritto alle agevolazioni di cui all’articolo 13». Questo articolo, però, di fatto non agevola l’inserimento lavorativo, in quanto è estremamente improbabile che un’azienda assuma un lavoratore con una patologia psichiatrica, così come aspettare che il Collocamento Disabili prenda in carico le singole persone e si attivi nel ricercare un contesto di lavoro. Ne consegue che la quasi totalità non riceve alcuna proposta di lavoro. A loro non resta che sperare in un servizio socio-sanitario che si dia da fare per trovare un’azienda disponibile, anche se l’esperienza mi ha ampiamente dimostrato che raramente questi servizi riescono a inserire al lavoro con un regolare contratto.
Quello stesso articolo della Legge 68/99 è inoltre utilizzato da molti Enti Pubblici per escludere questa categoria di disabilità dai concorsi. Tra l’altro la declinazione di «disabili psichici» raccoglie due mondi diversi in tema di inclusione lavorativa, le persone con disabilità mentale e quelle con disabilità intellettive, creando non poche incomprensioni. Si aggiunga inoltre che per escludere spesso le persone autistiche dai concorsi, esse vengono classificate come “psichiche”.
Ne consegue che gli inserimenti relativi a questa categoria di disabilità sono estremamente ridotti, e spesso i collocati perdono il posto di lavoro entro dodici mesi dall’ingresso in azienda. Sarebbe inoltre opportuno verificarne la costituzionalità, visto che crea disparità di trattamento e discriminazione fra pari.
In attesa dunque della riforma della Legge 68/99, sarebbe utile, dove possibile, ricorrere alle buone pratiche (convenzioni come da articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03; adozioni lavorative a distanza; isole formative; smart working integrato ecc.).
Nel mese di settembre dello scorso anno è stata istituita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali un’apposita piattaforma per la valutazione e diffusione delle buone prassi in materia di collocamento mirato. Vale la pena sfruttarla, anche se mi riesce difficile essere fiducioso, visto che l’applicazione è lasciata alla discrezionalità delle singole Regioni.
Continuare a trascurare il tema dell’inclusione delle persone con disabilità dovuta a malattie mentali non è solo causa di malessere per loro, ma anche per le famiglie. Ed è anche una forma di autolesionismo sociale, visto che coinvolge direttamente e indirettamente quasi quindici milioni di cittadini. Non dimentichiamo inoltre che la malattia mentale non è solo un problema per chi ce l’ha, ma è un rischio a cui siamo tutti esposti. Non appartiene a loro, ma alla vita, e questo ci deve coinvolgere anche se ci fa paura. A questo si aggiungano i danni prodotti dalle pandemie e l’insicurezza globale che stanno creando le guerre.
Stiamo però attenti. Abbiamo fatto il giro di boa, e ci siamo avviati sulla strada del ritorno al passato. La diffusione dello stigma, la mancanza di attenzione sociale ci stanno riportando verso l’emarginazione e la segregazione praticate in altri tempi. Non sarà la revisione edulcorata o politicamente corretta di vecchie strutture, a renderle eticamente e socialmente accettabili. Basti pensare che le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) nel 2007 erano 2.475 contro le 4.629 del 2020.
Non illudiamoci, non è con il silenzio, la passività, la fuga, il negazionismo, che si affrontano le contraddizioni sociali! Al contrario, serve il contributo e la partecipazione di tutti. Sarebbe opportuno, ad esempio, fare una dettagliata indagine del fenomeno sotto il profilo sanitario e sociale, e richiamare l’attenzione delle istituzioni e della politica organizzando dibattiti e convegni sul tema. Lo dobbiamo alle persone e alle famiglie che vivono in queste condizioni, a Franco Basaglia, e a tutti quelli che hanno lottato per la chiusura degli ospedali psichiatrici.