Massimo Aprea si occupa delle condizioni economiche delle ‘famiglie numerose’ – definite come quelle con almeno 3 minori – in Italia, evidenziando come tali famiglie siano molto più esposte al rischio di povertà assoluta. A questa fragilità non ha prestato attenzione il Reddito di Cittadinanza (RDC), la cui peculiare scala di equivalenza era molto penalizzante per le famiglie numerose sia in termini di accesso che di generosità del beneficio. La recente riforma del RDC non sembra aver modificato questo quadro.
Come nella maggior parte delle economie avanzate, anche in Italia le famiglie numerose sono oggi molto meno comuni che in passato. Questo, però, non significa, che ad esse e ai loro bisogni le politiche sociali e, in particolare, le misure di reddito minimo non debbano prestare grande attenzione. Questa tesi è al centro di un recente articolo intitolato “The large family penalty in Italy: Poverty and eligibility to minimum incomes” scritto insieme a Giovanni Gallo e Michele Raitano. Queste note sintetizzano i principali risultati dell’articolo e lo fanno sotto forma di risposte a cinque domande fondamentali e di diversa complessità.
Cosa si intende per famiglia numerosa?
Non esiste una definizione univoca di famiglia numerosa: la via più semplice è senz’altro quella di riferirsi al numero dei membri complessivi e definire una soglia oltre la quale la famiglia viene considerata ‘numerosa’. Nel nostro lavoro, tuttavia, seguiamo un approccio diverso. In particolare, definiamo ‘numerose’ le famiglie in cui convivono almeno tre ragazzi sotto i 19 anni – età di completamento del ciclo di istruzione superiore, d’ora in poi, per semplicità, minori. Questa scelta si basa su due motivi principali: in primo luogo, essendo il nostro interesse primario l’analisi della povertà minorile, l’inclusione di famiglie con pochi minori e molti adulti – tendenzialmente più legati al mercato del lavoro – porterebbe a sottostimare il rischio di povertà. In secondo luogo, una prospettiva basata sui minori è spesso assente nel dibattito accademico sul benessere familiare e sulla connessione con le politiche di reddito minimo.
Mentre la nostra analisi principale si basa sul 2019, per verificare la rilevanza del fenomeno delle famiglie numerose in Italia usiamo dati dal 2017 al 2021. In media, troviamo che nel periodo considerato esse rappresentavano circa l’8.5% del totale delle famiglie con minori. Più consistente, variabile tra il 17 e il 19% (a seconda dell’anno), è invece la quota di minori che (in base all’anno specifico) viveva in una famiglia numerosa secondo la nostra definizione.
Il messaggio chiave è che se da un lato le famiglie numerose sono relativamente rare in Italia, una quota non trascurabile di minori – quasi un quinto – vive in tali famiglie. Le famiglie senza minori sono dunque escluse dalle analisi che seguono.
I minori nelle famiglie numerose sono più poveri della media?
Il secondo pezzo del mosaico, quello che chiarisce la motivazione sociopolitica del nostro lavoro, riguarda la domanda che dà il titolo a questo paragrafo. Per le politiche sociali in generale, e quelle di reddito minimo in particolare, è rilevante accertare se la numerosità della famiglia (sempre nel nostro senso) incida sulla probabilità dei minori di vivere in povertà. E ciò perché, se non altro, si tratta di quasi un quinto dei minori, come si è appena detto. Quanto all’indicatore di povertà, faremo riferimento a quello di povertà assoluta, come si dirà meglio tra breve.
I risultati, che si riferiscono al 2019, sono piuttosto eloquenti: mentre circa il 9% dei minori che vive in famiglie piccole – quelle con massimo due minori – sono in povertà assoluta, tale percentuale cresce al 19% per i minori che vivono nelle famiglie numerose. Una differenza davvero molto rilevante che dimostra come, in Italia, la condizione delle famiglie con molti minori sia particolarmente difficile. Tale difficoltà, a sua volta, ha profonde implicazioni in termini di uguaglianza delle opportunità, un aspetto cui i decisori politici dovrebbero prestare particolare attenzione. In particolare, le politiche di reddito minimo, che nell’attuale architettura istituzionale sono lo strumento anti-povertà di ultima istanza, dovrebbero tenere conto esplicitamente della situazione delle famiglie numerose.
Prima di procedere, sono necessarie alcune precisazioni sull’indicatore di povertà assoluta usato nell’analisi rimandando il lettore interessato ad altri articoli per approfondimenti ulteriori. L’indicatore di povertà assoluta, forse quello a cui più frequentemente si fa riferimento nel dibattito pubblico italiano, definisce la povertà in termini di ‘insufficienza’ della spesa per consumi. In particolare, una famiglia è considerata povera se la sua spesa mensile per consumi è inferiore a una soglia specifica data dal costo di un paniere di beni e servizi essenziali – beni alimentari, relativi all’abitare, e in grado di soddisfare alcuni bisogni residuali legati alla partecipazione attiva nella società – che varia a seconda della composizione del nucleo, dell’area geografica e del tipo di comune di residenza.
Come sono strutturati gli schemi di reddito minimo in Italia?
I primi due elementi del ragionamento portato avanti in queste note possono essere così riassunti: le famiglie numerose, pur relativamente rare, ospitano quasi un quinto dei minori e sono molto più esposte delle altre alla povertà assoluta. Le politiche sociali e, in particolare, le misure di reddito minimo dovrebbero dunque intervenire.
In generale, i redditi minimi sono schemi residuali di contrasto alla povertà sottoposti alla prova dei mezzi – che ha il compito di permettere di individuare, in base a determinate soglie reddituali e/o patrimoniali quali famiglie sono effettivamente ‘meritevoli’ di ricevere il trasferimento. Molto spesso, tali schemi prevedono obblighi relativi al reinserimento dei beneficiari nel molto del lavoro (corsi di formazione, accettazione di offerte di lavoro congrue, e così via).
L’Italia, come noto, è stata uno degli ultimi paesi europei a introdurre una misura di reddito minimo. La prima è stata il Reddito di inclusione (Rei) nel 2018, sostituita dal Reddito di Cittadinanza (RDC) nel 2019, a sua volta sostituita dall’Assegno di inclusione (Adi) a partire dal 2024. Le analisi che seguono, usando dati del 2019, fanno riferimento al RDC.
Il RDC, anch’esso per lungo tempo al centro del dibattito politico ed economico italiano, aveva tutte le caratteristiche di una ‘classica’ politica di reddito minimo – requisiti di residenza (molto più stringenti che in altri paesi), di reddito e di ricchezza (sia reale che finanziaria), e condizionalità legate al reinserimento lavorativo. Un aspetto particolarmente rilevante per gli scopi di questa nota è la scala di equivalenza usata per calcolare i requisiti di accesso e l’importo delle prestazioni per famiglie di composizione diversa.
Perché la scala di equivalenza è fondamentale per le politiche sociali?
In generale, una scala di equivalenza è uno strumento per comparare le risorse di famiglie di dimensione e/o composizione differente. In sostanza, è un fattore di scala – un numero – che trasforma le risorse familiari in risorse individuali equivalenti. A sua volta, tale fattore dipende dalle ipotesi che si fanno sulla rilevanza delle economie di scala familiari, ossia su quanto vivere insieme riduce il totale delle spese familiari pro capite – ad esempio condividendo affitto, mutuo, bollette o spese per beni durevoli. Per esemplificare, è utile considerare due esempi estremi. Da un lato, se tutti i consumi fossero considerati non rivali all’interno della famiglia – cioè lo stesso bene o servizio può essere fruito da tutti i suoi membri, quanti che essi siano – il parametro della scala di equivalenza sarebbe pari a 1. Dall’altro, se tutti i consumi fossero rivali, la scala di equivalenza sarebbe pari al numero di componenti della famiglia.
È presumibile che la ‘verità’ stia nel mezzo ma non esiste una soluzione ampiamente condivisa e le scale di equivalenza proposte in letteratura sono molteplici. Inoltre, un aspetto molto spesso sottovalutato è che i panieri di consumo e, con essi, la quota di beni rivali e non rivali, variano molto a seconda della fase di vita dei componenti del nucleo. In particolare, per le famiglie con figli, la quota dei beni rivali (cibo, pannolini, spese legate ad istruzione e ricreazione) potrebbe essere particolarmente elevata e, dunque, sarebbero basse le economie di scala.
La scala di equivalenza adottata dal RDC per la valutazione del requisito reddituale (da cui dipende anche l’importo della prestazione) assume invece economie di scala particolarmente elevate – ogni componente adulto, oltre il primo, conta 0,4 e ogni minore 0,2 con un tetto al valore della scala fissato a 2,1 (2,2 se la famiglia ha un membro disabile). Come si nota nella Figura 1, la scala RDC sottostima fortemente il numero di componenti equivalenti rispetto a due scale alternative di largo utilizzo, quella applicata per l’ISE e la cosiddetta scala OCSE modificata, che assegna valore di 0,3 a ogni componente di età non superiore a 14 anni.
Figura 1 – Scala RDC, scala ISE e scala OCSE modificata per numero di minori
Il RDC ha penalizzato le famiglie numerose?
A questa domanda le varie evidenze emerse consentono di dare una risposta, articolata a due livelli. Il primo fa riferimento al numero di minori in povertà assoluta esclusi dal RDC a causa dei requisiti di accesso. Il secondo riguarda il ruolo che ha avuto la peculiare scala di equivalenza del RDC e come sarebbe variato il tasso di copertura tra i minori in povertà assoluta adottando una scala di equivalenza più generosa. Le risposte sono desumibili dalla Figura 2.
In primo luogo, nel 2019 il 63% dei minori in povertà assoluta è stato escluso dal RDC a causa del mancato soddisfacimento di almeno uno dei requisiti previsti per l’accesso. Tale quota è stata leggermente inferiore, pur rimanendo molto elevata, per le famiglie numerose (55% e 59% per quelle con tre o almeno quattro minori) che, è bene ricordarlo, erano però molto più esposte alla povertà assoluta. L’immagine speculare è quella di un tasso di copertura del RDC molto basso tra i minori in povertà assoluta: del 37% nel complesso, del 45% tra i minori che vivono in famiglie con tre minori e del 41% tra quelli che vivono in famiglie con almeno quattro minori. Queste cifre forniscono una prima indicazione della penalizzazione delle famiglie numerose.
Per determinare in quale misura tale penalizzazione sia dipesa dalla scala di equivalenza adottata, con un esercizio di simulazione abbiamo ricalcolato il requisito reddituale di accesso al RDC usando le due scale di equivalenza alternative e più ‘generose’ – la scala ISE e la scala OCSE modificata – già considerate nella Figura 1. Si ottengono in questo modo due platee ‘controfattuali’ di beneficiari potenziali RDC che differiscono unicamente per la scala di equivalenza adottata allo scopo di verificare il requisito reddituale di accesso e che possono essere dunque confrontate con la platea effettiva di beneficiari potenziali.
Figura 2: Accesso al RDC per i minori in povertà assoluta per scala di equivalenza e numero di minori coresidenti
Come evidenziato dai rombi e dai triangoli nella Figura 2, il tasso di copertura del RDC tra i minori in povertà assoluta sarebbe aumentato, in media, di quasi 6 punti percentuali usando la scala ISE e di 3.5 punti percentuali usando la scala OCSE modificata, ma per le famiglie con almeno quattro minori tali incrementi sarebbero stati, rispettivamente di 25 e 16 punti percentuali. Chiaramente, anche la generosità del beneficio – che dipende dalla distanza tra le risorse familiari e la soglia reddituale – è stata influenzata negativamente dall’uso della scala RDC.
In conclusione
L’analisi, qui sintetizzata, mette in luce due questioni di grande rilevanza. In primo luogo, la scelta della scala di equivalenza è fondamentale nel determinare sia il tasso di copertura che l’adeguatezza dei trasferimenti monetari sottoposti alla prova dei mezzi. In secondo luogo, in Italia, nel 2019, le famiglie numerose – in base alla definizione qui adottata – sono state doppiamente penalizzate: da un lato, a causa della maggiore esposizione al rischio di povertà assoluta; dall’altro, per la penalizzazione nell’ accesso al RDC e nell’entità del sussidio. Particolarmente allarmante risulta allora la recente riforma del RDC che, nonostante abbia esteso la cumulabilità fra reddito minimo e assegno unico per i figli, adotta una scala di equivalenza ancora più restrittiva (come Proto ha mostrato sul Menabò) e, dunque, non può che inasprire, nella maggior parte dei casi, le penalizzazioni illustrate in queste note.
* Il lavoro sul quale si basano queste note è stato reso possibile dalla disponibilità di una base dati, denominata AD-HBS, sviluppata nell’ambito di un progetto di ricerca congiunto tra la Direzione I del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università Sapienza di Roma. Le opinioni espresse nel lavoro su cui si basano queste note sono da attribuire unicamente agli autori e non coinvolgono le istituzioni che hanno preso parte al progetto
fonte: https://eticaeconomia.it/famiglie-numerose-e-reddito-di-cittadinanza-storia-di-una-penalizzazione/