Pane e democrazia a colazione
Basaglia aveva lasciato Gorizia nel 1969. In quegli anni aveva dovuto interrogarsi sul fondamento scientifico della psichiatria, sulla natura della malattia, sulla funzione del manicomio, sulla possibilità della cura. Scoprì così che le certezze scientifiche assolute su cui la psichiatria fondava il suo operare e il suo incontrastato potere erano quanto mai incerte. E che su queste incertezze si costruivano istituzioni totali e violente, metodi di cura assoluti e oggettivanti fino alla segregazione, all’elettroshock fino alla negazione della presenza dell’altro.
La psichiatria per farsi deve rendere oggetto la persona stessa.
Il lavoro di Basaglia scosse dalle fondamenta questa costruzione ideologica. Scelse di guardare le persone e non la malattia, cercando ostinatamente di restituire significato alle vite devastate, alle storie, agli affetti, ai sentimenti fino ad allora negati dalla malattia, dalla diagnosi, dal manicomio.
Tra le regole del manicomio e i bisogni degli internati non ebbe mai dubbi.
A Trieste era incalzato dall’urgenza di affrontare la dura immobilità del manicomio, dal rischio di restare complice, ora direttore, di quella durezza. Doveva realizzare esperienze di cambiamento che fossero esemplari. Di questo parlava in interviste, conferenze, pubblicazioni. Qualche anno prima, nel ‘68, Einaudi aveva pubblicato “L’istituzione negata” il libro sull’esperienza condotta a Gorizia.
In quegli anni l’eco dell’assemblea goriziana aveva richiamato operatori e studenti da ogni parte.
A Napoli dove io frequentavo le lezioni di medicina, nelle assemblee venivamo a conoscenza dell’esistenza degli ospedali psichiatrici.
Nei collettivi, si parlava della medicina come un modo del potere. E si diceva anche che i luoghi dove assoluto era l’esercizio del potere erano gli ospedali psichiatrici.
Una medicina da rinnovare si diceva.
Molti di noi erano attratti proprio da questi discorsi e dall’importanza della critica alle istituzioni che in quegli anni era al centro nel dibattito politico, nei movimenti, negli organi di informazione. Le discussioni, le manifestazioni, gli scioperi a sostegno della grande riforma sanitaria, che sarebbe arrivata, erano nelle cose. Infervorati da questi discorsi con alcuni compagni, chiedemmo di frequentare come interni l’Istituto delle Malattie Nervose e Mentali dove avremmo voluto portare le parole di “contestazione” del collettivo. Nell’istituto di Malattie Nervose e Mentali il potere del Direttore Barone era incontestabile, le gerarchie vertiginosamente verticali. Gli studenti rigorosamente in fondo alla fila al seguito del Direttore in visita. Senza poter dire una sola parola. Assenza totale di comunicazione e la parola democrazia doveva restare fuori dalla porta.
Altro che esercizio del nostro pensiero critico!
Basaglia si stava impegnando a reclutare giovani. Era ormai sicuro che sarebbe andato a lavorare a Trieste. Avrebbe fatto di tutto per formare un gruppo di giovani. Più semplice – diceva – formare nuovi psichiatri mentre si sperimentano pratiche di trasformazione, piuttosto che tentare di cambiare testa e cultura a psichiatri vecchi e già formati. Molti di noi accettarono entusiasti e intimoriti. Eravamo alla ricerca di una collocazione professionale che potesse assicurare una qualche continuità con le “lotte” studentesche e la professione medica alla quale ci stavamo avviando. Avevamo la consapevolezza della vita professionale frustrante e dissociata che ci aspettava. “Il sogno di una cosa migliore”, la visione del mondo migliore che ci aveva spinto a Gorizia, a Parma, a Trieste comincia a svanire.
Rispondendo alla chiamata di Basaglia, senza accorgercene, stavamo trovando la nostra strada, senza separazioni, senza dissociazioni: la “lunga marcia attraverso le istituzioni” e il lavoro quotidiano, instancabile.
Scrive Michele Zanetti, il presidente della Provincia che nel 1970 chiamò Basaglia a Trieste e che sostenne con convinzione il progetto, ricordando quell’inizio: Trieste è stato forse l’unico angolo d’Europa in cui un gran numero di “profughi” della generazione del ’68 ha avuto la possibilità di esercitare concretamente il proprio impegno sociale, la propria vocazione professionale, così da dimostrare quanto fossero capaci di fare senza rinunciare ai propri ideali, senza farsi “reclutare” o “comprare” da quella società che essi volevano cambiare.
Nella primavera del ’71, qualche mese prima della mia laurea sono riuscito a trovare un contatto con un amico napoletano che lavorava con Basaglia a Colorno. Venni accompagnato nella stanza dove Basaglia abitualmente lavorava e dove in quel momento teneva una riunione con i suoi collaboratori.
Tutti si davano del tu, stavano seduti in maniera non gerarchica, non indossavano i camici bianchi, non era possibile apprezzare segnali di differenze e di gerarchie. Basaglia, che aspettava la visita di uno studente, si alzò e mi venne incontro, mi fece sedere con loro e cominciò a parlarmi dandomi del tu chiedendomi di fare lo stesso.
Un altro mondo mi apparve.
Non capivo bene di cosa stessero parlando e tuttavia una cosa mi era chiara: c’erano altri modi di lavorare e di intrattenere relazioni e quello che stavo vedendo assomigliava sicuramente a quel cambiamento di cui discutevo con i miei compagni a Napoli. Basaglia mi disse che era sua intenzione reclutare giovani per formare un nuovo gruppo, che presto si sarebbe trasferito a Trieste. Dissi impacciato che mi sarei laureato di lì a poco. Bene – disse come entusiasta – e non appena laureato puoi tornare a Parma per cominciare. Ero frastornato. Il 6 settembre del 1971 sono partito per Parma.
Di li a poco sono approdato a Trieste.
A San Giovanni si discute di ogni cosa. Nei reparti ogni mattina assemblea con tutti i ricoverati e gli infermieri presenti. Le persone ora parlano delle loro insoddisfazioni, richieste di oggetti, cambio di orari, considerazioni generali sulla vita in manicomio che mi stupiscono. Non posso far altro che ascoltare. Un esercizio paziente di ascolto. Le parole che ho ascoltato all’università mi appaiono per quello che sono, distanti, vuote, violente. Capisco che mi tocca ascoltare, riconoscere, costruire vicinanza. Sono quelli i malati di mente! Più tardi alle undici riunione con tutti gli infermieri del reparto per ascoltare e discutere i loro commenti sull’assemblea. Per condividere decisioni su piccoli cambiamenti nel reparto, sul modo di distribuire il pranzo, sugli orari della sveglia, della cena, delle uscite. Ascoltare le parole di preoccupazione per quei cambiamenti che richiedono la loro partecipazione, ascoltare chi non parla, e le parole di critica e di chi dice della sua contrarietà. E ogni giovedì assemblea generale. Tutti sono chiamati a partecipare. Le persone, gli internati, intimoriti dalla possibilità che ora hanno di parlare fanno fatica a dire del loro desiderio di andare fuori. Qui si comincia a parlare di cooperativa, di lotta all’ergoterapia, di abitare.
Forse è questo il sogno della cosa migliore, della democrazia, dell’utopia che ci stava accompagnando. Ogni giorno il direttore ci aspettava alle cinque nel suo ufficio. La riunione di fine giornata. La mitica “riunione delle 5”. Basaglia e i più vecchi parlavano di quanto accadeva dentro e fuori l’ospedale. I conflitti con i sindacati, la resistenza al cambiamento degli infermieri, degli uffici amministrativi, le campagne contrarie al progetto di Basaglia dei partiti politici. A noi giovani tocca ascoltare e imparare. Dopo molto tempo abbiamo trovato il coraggio di parlare dei problemi che a noi apparivano irrisolvibili, delle nostre sconfitte, dei progetti, delle dinamiche che paralizzavano il lavoro. Basaglia ascoltava e trovava le parole per presentare il problema in altro modo, ci rassicurava.
Una impensabile fortuna. Ascolto e comincio a capire che devi allontanarti quanto prima dalle parole che hai ascoltato all’Università.
Franco Rotelli, amico mio carissimo, compagno per 50 anni, che tante cose mi ha insegnato, se ne è andato lo scorso anno. Un vuoto e un grande dolore.
Franco Rotelli dopo Basaglia, è stato il direttore dell’Ospedale psichiatrico fino alla sua definitiva chiusura.
Dirà ricordando con me quei primi anni a San Giovanni: “ con Basaglia siamo cresciuti a pane e democrazia a colazione”.