Quarant’anni fa la legge 180 che cancellò i manicomi. Ma molto resta ancora da fare
Prima, bisogna conoscere il prima . In caso contrario, non si può discutere seriamente del dopo: ovvero i quattro decenni trascorsi da quando, nel 1978, il Parlamento approvò la legge 180 in materia di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. E il prima era fatto di quella condizione di spoliazione e annichilimento che – come scrisse Primo Levi a proposito di altre e più lontane situazioni – rende l’individuo «materia umana». Lo riduce, cioè, alla sua sofferenza fisica e alla sua corporeità dolente. Così erano gli esseri umani – uomini e donne di tutte le età – rinchiusi nei manicomi e nei loro dispositivi di prigionia: sbarre, camicie di forza, cinghie e legacci, letti di contenzione. E, ancora, sporcizia, escrementi, bave e sudori. Se qualcuno non ricorda, o non vuole ricordare, ci sono le foto di Gianni Berengo Gardin e di Carla Cerati e di Raymond Depardon, il documentario “Matti da slegare” di Bellocchio, Agosti, Petraglia e Rulli, e i reperti dell’archeologia psichiatrico-giudiziaria, tutt’ora rintracciabili in molte città italiane.
Il manicomio come il carcere sono stati, nelle società democratiche, i principali luoghi non solo della “cosizzazione” delle persone e del loro spossessamento, ma anche quelli della deprivazione sensoriale e psichica. In questo scenario, la “legge Basaglia” ha rappresentato una fondamentale riforma, pressoché unica nel mondo, che ha promosso una nuova concezione della salute e della dignità della persona malata di mente. Nello stesso anno, altre due leggi, quella sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza e quella istitutiva del servizio sanitario nazionale che ha affermato il diritto universale alla salute, riconoscono nuovi spazi di autodeterminazione della persona. Ne discende una concezione innovativa della salute, quale stato di benessere fisico, mentale e sociale, che si raggiunge quando gli individui sviluppano e valorizzano le proprie risorse (molte o poche o residuali che siano) e la propria capacità di indipendenza. Come ha scritto Stefano Rodotà, una concezione della salute che si fonda sul «diritto che più caratterizza il rapporto tra libertà e dignità». Sono riforme, quelle del 1978, che nascono dalla mobilitazione culturale, professionale e sociale, e che vedono coinvolti medici, infermieri, associazioni di familiari e intellettuali.
Da quella elaborazione non discende affatto che «la malattia mentale non esiste», frase mai pronunciata da Franco Basaglia (come conferma lo psichiatra Peppe Dell’Acqua) e che tanti – in buona o cattiva fede – gli hanno voluto attribuire. Si è tentato, così, di ridurre a grossolana caricatura un pensiero che era e resta estremamente sofisticato. E, come accade per tutti i processi di emancipazione, anche questo ha comportato fatica e dolore, arretramenti e sconfitte.
E la capacità innovativa di quella legge ha incontrato sulla sua strada grandi ostacoli. Solo nel 1994 si è definito il piano che delineava le strutture da attivare a livello nazionale; e che dava l’avvio ad una riorganizzazione sistematica dei servizi preposti all’assistenza psichiatrica.
Chiudere i manicomi, realizzare una rete di servizi pubblici ispirati alla psichiatria di comunità, integrati nel sistema del Servizio Sanitario Nazionale non è stato facile e non si tratta, certo, di un percorso compiuto. Tutt’altro. Sono ancora troppe le disparità territoriali e in tante realtà sono state aperte case di cura che ricordano gli ospedali psichiatrici (l’80 per cento contano più di 30 posti e non sono inserite in contesti urbani), dove, troppo spesso, i farmaci sono l’unica forma di trattamento terapeutico della malattia mentale.
Infine, una questione cruciale e particolarmente dolorosa, quella relativa al difficile percorso delle famiglie e delle associazioni per uscire dall’isolamento e costruire relazioni. Famiglie e associazioni che, consapevolmente, chiedono sostegno e cure, trovandosi spesso senza conforto e senza assistenza. E ciò a causa dei ritardi nella costruzione di servizi territoriali adeguati, nell’attuazione di progetti di supporto al recupero e all’autonomia del paziente e in conseguenza dei tagli apportati al servizio sanitario nazionale e al sistema di welfare. E, poi, fortissime resistenze al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e una vischiosa persistenza della coercizione fisica (letto di contenzione) nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. Piuttosto sarebbe necessario, e quanto mai urgente, investire sulla ricerca e sulla sperimentazione nel campo della prevenzione, negli ambienti di vita e di lavoro, affrontando le cause che minacciano l’equilibrio e la salute mentale. Ma buone pratiche e situazioni di eccellenza si sono affermate, a dimostrazione che altre forme di cura della malattia mentale e di presa in carico delle persone che ne soffrono sono possibili.
Tutto ciò deve molto, moltissimo all’attività e al pensiero di Franco Basaglia. Un pensiero tanto radicale quanto fondato scientificamente, e clinicamente verificato. Capace, cioè, di andare alle radici psichiche della malattia e a quelle epistemologiche della sua cura. Per questo motivo, anche un’altra falsa attribuzione, a ben vedere, non gli è affatto estranea. Quella frase («Da vicino nessuno è normale») è stata scritta in realtà da Caetano Veloso ed è postuma alla morte di Basaglia, avvenuta nel 1980. Ma per la sua potenza poetica potrebbe pienamente appartenergli.
Fonte: L’ESPRESSO