Gianfranco Viesti e Carmela Chiapperini ricordano che ridurre le disuguaglianze territoriali è uno dei principali obiettivi del PNRR e per questo il 40% delle risorse deve essere destinato al Sud. Gli autori sostengono che – anche perchè il governo Meloni non pubblica la relazione prevista per legge sul rispetto del 40% – non è certo che l’obiettivo verrà raggiunto e che occorre preoccuparsi anche delle disuguaglianze interne al Mezzogiorno per evitare che la struttura produttiva del nostro paese si polarizzi ancora di più.
Il Next Generation EU (NGEU) non ha soltanto l’obiettivo di sostenere la ripresa degli stati membri ma anche quello di ridurre le disparità fra di essi. Per questo motivo le risorse sono allocate non in proporzione alla popolazione, ma in relazione alle loro difficoltà strutturali (disoccupazione) e alle loro necessità di ripresa dopo la pandemia. Le disparità tra paesi e territori rappresentano una sfida fondamentale per la coesione sociale ed economica dell’Unione Europea. Se l’Europa non riesce a garantire benefici tangibili a tutti i suoi cittadini, ovunque essi vivano, perde credibilità il suo intero progetto. Il punto è argomentato molto bene nel recentissimo Rapporto di un gruppo di esperti di alto livello sul futuro della coesione in Europa. Altrettanto importante è cercare di ridurre la disuguaglianza all’interno degli stati membri, il che richiede che questi ultimi allochino le risorse del NGEU in misura maggiore nei territori più svantaggiati.
Insieme alle disuguaglianze generazionali e di genere, le disuguaglianze territoriali sono una delle principali cause delle disuguaglianze complessive fra i cittadini di un paese (o anche di un’area più vasta). Si comprende quindi benissimo perché ridurre le disuguaglianze territoriali sia uno dei grandi obiettivi trasversali del PNRR italiano.
Ma il raggiungimento di questo obiettivo resta assai incerto, a causa sia dei criteri di riparto delle risorse utilizzati dal governo Draghi, sia della revisione del Piano operata dal governo Meloni.
In realtà, il PNRR non ha una esplicita dimensione territoriale: in esso mancano sistematicamente i criteri che, per ciascuna delle sue misure, dovrebbero ispirare l’allocazione geografica delle risorse. Mancano, cioè, indicatori relativi ai livelli di sviluppo delle diverse aree, alla gravità dei problemi occupazionali e alla dotazione territoriale di infrastrutture e servizi pubblici sulla base dei quali dovrebbero essere modulati gli interventi. Gli stessi obiettivi da raggiungere sono quasi sempre declinati come medie nazionali. Il Piano procede per linee settoriali, a «canne d’organo»: sono molto poche le misure in cui è indicata la destinazione territoriale degli investimenti.
Il Piano italiano fa riferimento alla dimensione territoriale soltanto in virtù della norma generale che prevede che almeno il 40% del totale delle risorse territorializzabili siano allocate nelle regioni del Sud. Il DL 77/21 ha poi stabilito che tale norma si applica a tutte le misure del Piano. Si tratta di una quota arbitraria, certamente non piccola, ma comunque insufficiente per ridurre in modo significativo i divari esistenti; inoltre, essendo riferita al Sud nel suo complesso non tiene conto delle notevoli differenze esistenti al suo interno – che peraltro sono notevoli anche all’interno del Centro-Nord.
L’effettiva allocazione territoriale delle risorse è stata frutto dei criteri, assai differenti da caso a caso, adoperati dai Ministeri, a partire dal giugno 2021, per la scelta dei progetti da finanziare e, quindi, della loro localizzazione. Questo processo è avvenuto senza una guida politica chiara, lasciando una grande discrezionalità ai Ministri. Così, come altrovedettagliatamente documentato, una parte delle risorse è andata ai pochi progetti già individuati nel PNRR: un esempio è quello delle risorse per le reti ferroviarie. Una piccola parte è stata direttamente gestita dalle Amministrazioni Centrali titolari dei fondi (gli interventi per la digitalizzazione della PA o quelli per la giustizia). Un’altra parte viene assegnata direttamente a sportello a privati, imprese o cittadini (come per le grandi misure Transizione 4.0 per le imprese e per i bonus per le ristrutturazioni edilizie). Un’ulteriore, significativa, quota è stata allocata a soggetti attuatori pubblici (Regioni, Enti Locali, Aziende Sanitarie Locali) sulla base di un provvedimento di riparto (come per gli interventi in materia sanitaria e del lavoro). Infine, una parte importante delle risorse è stata allocata attraverso bandi competitivi emanati dalle Amministrazioni Centrali, per Enti Locali o altri soggetti pubblici (o partenariati pubblico-privati) territoriali (scuole e asili nido, rigenerazione urbana, infrastrutture idriche, promozione della ricerca e dell’innovazione). I bandi in alcuni casi sono accompagnati da modalità di pre-riparto (come nel caso degli interventi sulle scuole), in altri no. Con il meccanismo dei bandi si è fatta una scelta politica precisa: privilegiare la cantierabilità dei progetti, rispetto all’obiettivo di fornire servizi a tutti i cittadini e infrastrutture a tutti i territori.
Il Dipartimento per le politiche di coesione ha il compito di verificare il rispetto dell’obiettivo di allocazione del 40% nel Mezzogiorno e deve, a questo fine, produrre relazioni periodiche. Nonostante gli obblighi di legge, dall’insediamento del governo Meloni queste relazioni non sono state più pubblicate. L’ ultima disponibile risale al settembre 2022 con dati riferiti al giugno dello stesso anno. Da quei dati risulta che l’obiettivo della quota Sud (86,9 miliardi di spesa) è raggiungibile, ma non è garantito. La terza relazione sulla complessiva attuazione del Piano (giugno 2023) contiene qualche piccolo aggiornamento a fine 2022 e conferma che l’obiettivo è raggiungibile ma senza fornire ulteriori informazioni.
Per i due terzi delle risorse erano stati già chiaramente individuati i progetti da realizzare al Sud; per il resto vi erano «proiezioni» basate sulle scelte dei Ministeri, dati di «riparto» e più labili «stime» da parte delle Amministrazioni responsabili. Da allora il silenzio è totale: la quarta relazione, approvata dalla Cabina di regia del PNRR nel febbraio 2024, nelle sue 162 pagine non dedica neanche una riga al tema.
Quello che emerge con chiarezza dai dati a fine 2022 è che la percentuale di allocazione delle risorse nel Mezzogiorno è molto diversa fra Ministeri, ed è particolarmente bassa nel caso del Ministero delle Imprese e del Made in Italy (24,6%), oltre che per il turismo. Le misure di incentivazione per le imprese sono molto consistenti nel PNRR originale: 38 miliardi. Ma per metà sono destinate a Transizione 4.0 che finanzia crediti di imposta a pioggia per gli investimenti digitali, e che, per le scelte fatte all’epoca dal ministro Giorgetti, non prevede alcun vincolo di destinazione territoriale. Conseguentemente, la grande maggioranza dei crediti di imposta sono e saranno riconosciuti nelle regioni più forti (a cominciare da Lombardia, Veneto, Emilia). Questo amplifica il rischio che lo sviluppo industriale italiano si polarizzi ancora di più. Inoltre, se non si rafforza la capacità produttiva al Sud, l’impatto di lungo termine del PNRR sarà molto limitato, perché la domanda aggiuntiva si indirizzerà principalmente ad importazioni e non stimolerà la produzione locale.
Vi è poi il tema delle possibili differenze fra le allocazioni delle risorse fra specifici territori all’interno del Sud – e lo stesso vale per il Centro-Nord. La mancanza di analisi ufficiali e le notevoli criticità della piattaforma Regis non consentono di disporre di informazioni precise. La tabella che segue, costruita su dati forniti dalla Banca d’Italia negli studi sulle Economie regionali di novembre 2023 parrebbe mostrare che se non vi sono significative differenze nell’intensità delle allocazioni a livello regionale nel Mezzogiorno; ve ne sono, però, a livello delle diverse misure. Un esempio è la scarsità di investimenti nel sistema dell’istruzione in Sicilia. Va tenuto presente che i dati della tabella sono al netto degli incentivi per le imprese.
Naturalmente, le disparità fra “centri” e “periferie” non possono e non debbono essere lette solo in chiave macroregionale; esse hanno una pluralità di componenti. In una chiave più disaggregata, le preoccupazioni si accrescono: sono notevolissime le differenze nelle allocazioni per gli interventi urbani; sono state allocate più risorse ai comuni con una presenza di asili nido già notevole rispetto a quelli sprovvisti; non vi è correlazione fra i deficit provinciali nelle infrastrutture scolastiche e le allocazioni del PNRR; la partecipazione ai bandi è assai più difficoltosa per i comuni di piccole dimensioni.
E questo non è che l’inizio, dato che alle allocazioni deve far seguito la capacità di realizzare gli interventi. In questo ambito le informazioni sono ancora più scarse. Le migliori ricostruzioni disponibili, dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio con la preziosa collaborazione dell’IRPET-Toscana, forniscono un quadro ancora assai provvisorio; non necessariamente segnato da forti disparità macro-territoriali nelle complessive realizzazioni ma comunque caratterizzato da una velocità di esecuzione minore nei comuni del Centro-Sud rispetto a quelli del Nord, nient’affatto sorprendente alla luce delle disparità esistenti nelle loro capacità tecniche. I dati per regione mostrano preoccupanti ritardi in Sicilia. È evidente che il tutto dovrebbe essere oggetto di un attento monitoraggio: anche perché sono indispensabili chiarezza e tempismi per attivare gli eventuali poteri sostitutivi nazionali, previsti dal Piano.
Invece, tutto questo è destinato a diventare ancora più oscuro e preoccupante alla luce della assai ampia revisione del PNRR, operata dal governo Meloni, il cui segno principale è stato lo spostamento di ingenti risorse dagli investimenti pubblici (circa 16 miliardi) ai sussidi alle imprese, per dare una propria chiara impronta politica al Piano.
Le analisi disponibili mostrano che senza dubbio la revisione renderà più difficile raggiungere l’obiettivo del 40%: sia perché la quota nel Mezzogiorno degli investimenti esclusi dal Piano era significativa (intorno al 52%), sia perché risorse aggiuntive assai ingenti (oltre 6 miliardi) sono state allocate ad un ulteriore credito d’imposta, il cui impatto non potrà che andare nello stesso senso di Transizione 4.0. È comprensibile che il governo Meloni si sia astenuto dal fornire nella Quarta Relazione qualsiasi informazione a riguardo! Il tutto va infine letto alla luce di quanto previsto dal decreto approvato dal Consiglio dei Ministri il 27 febbraio scorso, che rifinanzia i progetti esclusi dal PNRR in seguito alla revisione. Ma lo fa attingendo 2,2 miliardi dal Fondo Complementare (e quindi riducendo a sua volta alcuni interventi lì previsti), 5 miliardi dal Fondo Sviluppo e Coesione (destinato per l’80% al Mezzogiorno), 3,8 miliardi dai fondi per gli investimenti futuri dei comuni e dello Stato. Verificare il rispetto della norma che destina il 40% delle risorse del PNRR al Sud (che naturalmente vale anche per la nuova versione) e in genere l’impatto territoriale di questo tourbillon di fondi sarà tanto necessario quanto assai complesso, specie alla luce del cattivo funzionamento del sistema Regis.
Quanto si è fin qui argomentato porta a concludere che sarebbe assai opportuna una forte iniziativa parlamentare per chiedere al governo di fornire nelle sedi istituzionali, come previsto per legge, dettagliate e aggiornate informazioni sull’allocazione territoriale degli interventi del PNRR: in relazione non solo alla quota del 40% da destinare al Sud, ma anche, più in generale, alle profonde disparità territoriali che segnano il nostro paese.
Fonte: https://eticaeconomia.it/il-pnrr-e-i-divari-territoriali/ (questo articolo è pubblicato in contemporanea su sbilanciamoci.info)