Definire i Lep non è sufficiente per garantire la stessa qualità dei servizi in tutto il paese, nella sanità come in altri settori. Bisogna attuare meccanismi di convergenza verso le esperienze migliori, E non basta aumentare i finanziamenti per riuscirci.
La tabella del direttore generale
La notizia è rimbalzata sulla stampa qualche giorno fa: in una audizione tenutasi all’inizio di febbraio presso la X Commissione affari sociali del Senato, su un argomento differente (una indagine conoscitiva relativa alle forme integrative di previdenza e assistenza sanitaria, un tema del quale bisognerebbe davvero occuparsi), il direttore generale della Programmazione sanitaria ha mostrato una tabella con i risultati – diciamolo, provvisori, come chiaramente indicato nella presentazione – della griglia di valutazione dei livelli essenziali di assistenza (Lea) per il 2022. Questi risultati provvisori sono riportati nei grafici in pagina insieme a quelli definitivi del quinquennio 2017-2021.
I dati provvisori – questa la notizia commentata dalla stampa – mostrano un peggioramento delle performance regionali nell’ambito della prevenzione e diseguaglianze rilevanti tra le diverse amministrazioni, con alcune che non raggiungono la sufficienza. Alcune regioni hanno subito protestato per la diffusione di dati provvisori e il ministro della Salute, nei giorni successivi, ha dovuto ribadire che di questo appunto si tratta e che i risultati preliminari dovrebbero comunque servire alle regioni come stimolo per migliorarsi. Su questo ultimo punto non si può che essere d’accordo col ministro.
In realtà, è difficile parlare di “notizia”. Da un lato, che le performance regionali in tema di prevenzione sarebbero peggiorate era (è) un dato atteso. È da tempo che circolano informazioni che raccontano come, dopo il Covid-19, si sia registrata una contrazione nella partecipazione ai programmi di screening e a quelli vaccinali. Nella presentazione del direttore generale della Programmazione, una seconda tabella, ignorata dalla stampa, è ancora più eloquente: con un focus su alcuni indicatori specifici, si evidenziano per l’area “prevenzione” insufficienze marcate per gli stili di vita e per gli screening di primo livello su cancro alla mammella e colon retto. Sui programmi vaccinali, si trovano sul sito del ministero evidenze di un arretramento consistente nelle coperture, anche per gli anziani, tra la campagna per il 2020/2021 e il 2021/2022. Dall’altro lato, non è certamente una notizia né l’osservazione di risultati diseguali tra regioni, né che alcune non riescano a raggiungere la sufficienza nell’esercizio di valutazione. Lo dimostrano i dati definitivi del quinquennio 2017-2021 riportati nella stessa tabella.
La questione Lea
Screening e coperture vaccinali fanno parte del set di indicatori utilizzati nel Nuovo Sistema di garanzia per il monitoraggio dei Lea, che innova quello del 2001.
Il meccanismo, al di là di dettagli tecnici, è sostanzialmente lo stesso e risponde a un’ovvia intuizione: la definizione dei Lea che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale non è sufficiente per garantire l’equità nella fornitura dei servizi fra i territori. Occorre perlomeno monitorare che le diverse regioni forniscano davvero i servizi ai cittadini, dopo che hanno ricevuto i fondi necessari per farlo. Il monitoraggio si può fare in tanti modi, ma quello più ovvio è definire un set di indicatori che mappino l’attività delle regioni nelle macro-aree di attività: prevenzione, sanità territoriale e ospedale.
La storia non è certo una novità per la sanità regionale, visto che i Lea sono stati definiti per la prima volta nel 1999, prima della riforma costituzionale del 2001, che ha introdotto la nozione di livelli essenziali delle prestazioni, i famosi Lep di cui tanto si parla nell’ambito delle discussioni sull’autonomia differenziata. Il problema è che dell’esperienza ultraventennale dei Lea si fa finta di non cogliere almeno uno degli insegnamenti di fondo: monitorare le azioni regionali non è sufficiente per garantire l’equità. Né è sufficiente, come sembra suggerire Maurizio Ferrera, pubblicare i dati relativi alle performance e dare “bollini” di qualità: tutti i rapporti del monitoraggio Lea sono disponibili sul sito del ministero della Salute e la legge 68/2011 prescrive di identificare le regioni “benchmark” tra quelle che garantiscono i Lea nel rispetto del vincolo di bilancio, un esercizio retorico senza alcun effetto sostanziale, se non identificare le regioni più brave nello svolgere il proprio compito e attribuire appunto un “bollino”. Perché il sistema di monitoraggio sia efficace, occorre da un lato che sia in grado di cogliere davvero gli aspetti sostanziali dei servizi per i cittadini e, dall’altro, che una volta identificate le differenze nei risultati, si riesca a disegnare (e a realizzare) un meccanismo che consenta una forma di convergenza verso i migliori (i “benchmark”).
Sul primo punto, come ricordato in occasione della pubblicazione, i risultati del monitoraggio per le performance 2020, l’anno della pandemia, che pur non erano pensati in chiave valutativa, mostravano miglioramenti sull’assistenza distrettuale proprio l’area nella quale il Covid-19 aveva smascherato mancanze sostanziali. Il sistema di monitoraggio sembrerebbe quindi mal tarato e incapace di cogliere gli aspetti rilevanti dei servizi.
Sul secondo punto, come disegnare la convergenza è per l’appunto il tema ampiamente disatteso in tutte le discussioni che riguardano sia politiche in mano alle regioni (come i servizi sanitari) sia quelle nelle mani dello stato (come l’istruzione o la giustizia). I divari territoriali sono scandalosi in entrambi i casi. E se lo stato non è riuscito finora a risolvere i differenziali nelle competenze scolastiche, non è del tutto chiaro come possa riuscirci dopo, monitorando le regioni, se queste dovessero chiedere maggiori spazi di autonomia sulla materia.
Ma ancora più scandaloso è il fatto che, a dispetto di qualsiasi esercizio di valutazione, non ci sia stato alcun serio tentativo per cercare di uniformare verso l’alto i risultati. I primi esercizi di valutazione dei Lea sono ormai vecchi di vent’anni. I Piani di rientro a partire dal 2007, un tentativo di “revisione della spesa” imposto dallo stato centrale alle regioni con disavanzi significativi, sono riusciti nell’intento di ridurre gli scostamenti, ma sono stati meno efficaci nel promuovere miglioramenti altrettanto significativi sul fronte dei Lea. Molto spesso la discussione è stata banalizzata con la richiesta di ulteriori finanziamenti da assegnare alle amministrazioni con le prestazioni peggiori. Ma aumentare i finanziamenti senza discutere di come la spesa già erogata non sia riuscita a trasformarsi nei livelli minimi di servizio rischierebbe di aumentare e perpetuare le inefficienze, senza riuscire a migliorare davvero i servizi per i cittadini.