A cento anni dalla nascita dello psichiatra, ci sono le cooperative sociali, il cavallo scolpito davanti all’ex manicomio, ma nessun luogo che porta il suo nome. «Meglio così» dice la figlia Alberta
TRIESTE. È il 1979, un anno dopo l’approvazione della legge 180 e un anno prima che il suo ispiratore, Franco Basaglia, morisse troppo presto. Lo psichiatra sta tenendo le sue Conferenze brasiliane e sente gli occhi del mondo addosso.
A São Paulo racconta un episodio accaduto a Trieste, la città dove è riuscito a fare l’impossibile, smantellando il manicomio e riconoscendo dignità ai matti. Un giorno un uomo prende un taxi e chiede di andare a Beirut. «D’accordo», risponde il tassista. Gli fa fare un lungo giro e si ferma al teatro romano. «Questa è Beirut», gli dice. Il signore ringrazia, scende e paga. La storia è importante, sottolinea Basaglia, per due motivi: quell’uomo ha i soldi per pagare il taxi, quindi è autonomo, non deve mendicare; e il tassista non si sorprende, non lo maltratta né chiama la polizia. E soprattutto sa che cosa fare, senza essere un sanitario.
Insomma, più che la storia di Franco Basaglia, questa è la storia di Trieste e di come abbia reagito alla sua rivoluzione. Cosa sia rimasto di lui in questa città, nel centenario della sua nascita e a cinquant’anni dagli eventi, è difficile dirlo e allo stesso tempo è sotto gli occhi di tutti. Qui, dove nessuna piazza e nessuna via portano ancora il suo nome. Forse bisogna tornare a quel tempo per avere un’idea.
Nei quartieri popolari
Dal 1971 al 1977, la città viene investita da un vento inaspettato, inquieto e caldo, che parte da San Giovanni, il “frenocomio” inaugurato nel 1908 sul modello dello Steinhof di Vienna. È un grande parco di ventidue ettari steso su una collina; ospita una quarantina di palazzine dove per settant’anni finiscono migliaia di uomini e donne, destinati a morire senza libertà. Grazie a quel parco, lontano dalla vista, la città può sentirsi sicura.
Giovanna Del Giudice ha 24 anni quando arriva a Trieste. È una giovane psichiatra, con il desiderio di immergersi in qualcosa di inaudito e di fuggire dalla claustrofobia del Sud dove ha vissuto fino ad allora. «Ricordo che non riuscivo a capire la città, la sua architettura asburgica, la mancanza della vita di piazza. Ricordo la grande cordialità dei suoi abitanti e allo stesso tempo quel rimarcare le distanze; nessuno ti invitava a casa, piuttosto ti davano appuntamento al caffè. Venivo da una piccola città del Sud e sentivo tutto il fascino di una città che era stata una capitale. Era anche una città di confine e il confine era una cortina di ferro»