Vita – con Veronica Rossi – intervista Giuseppina Paulillo, direttrice dell’unità operativa complessa “Residenze psichiatriche e psicopatologia forense” a Parma, che racconta come può avvenire la presa in carico di chi ha un problema psichiatrico prima di entrare in carcere e di chi lo sviluppa tra le mura della cella. In che modo sono – o dovrebbero essere – seguiti gli autori di reato con disturbi psichici? Sia che i problemi siano sopraggiunti tra le mura del penitenziario, sia che siano precedenti all’arresto – e quindi abbiano, eventualmente, portato a una sentenza di non imputabilità – ci dovrebbe essere una presa in carico per queste persone, in modo da assicurare loro il diritto fondamentale alla salute e alle cure. Giuseppina Paulillo, psichiatra della Usl di Parma e direttrice dell’unità operativa complessa “Residenze psichiatriche e psicopatologia forense”, che accoglie anche autori di reato, ci ha spiegato come avviene questa presa in carico nella sua Regione.
Dottoressa, qual è il percorso per chi ha un disturbo psichiatrico all’interno delle carceri italiane?
I detenuti che entrano in carcere senza una diagnosi e a cui la carcerazione purtroppo fa sviluppare una patologia psichiatrica, vengono presi in carico dai Servizi di salute mentale che – con delle differenze organizzative e operative – sono presenti in quasi tutte le carceri italiane. Se le condizioni possono essere compatibili con il regime detentivo si cerca di curare la persona in carcere, dando un sostegno progettuale che preveda colloqui psichiatrici e psicologici e una progettualità educativa, orientata alla dimensione del lavoro e a quella socializzante. Si possono prevedere attività in gruppo, orientate a prevenire le ricadute nelle sostanze stupefacenti oppure programmi volti a lavorare sulla dimensione degli uomini maltrattanti, a seconda di quello che è l’inquadramento psichico e comportamentale di ognuno. Certo, la criticità sostanziale è che bisogna trovare la massima collaborazione anche con l’amministrazione penitenziaria, perché di fatto la dimensione sanitaria è in qualche modo ospite dentro l’istituzione. Se le cose funzionano, la persona viene coinvolta in un percorso di supporto, che le porta benefici da diversi punti di vista.
Quello che lei descrive è un quadro ideale. Tuttavia molti raccontano di colloqui dei detenuti con gli psichiatri quasi assenti e spesso si sente parlare di suicidi in cella…
Bisogna fare delle distinzioni. Parliamo spesso di diagnosi psichiatriche facendo riferimento a quella che per noi è la diagnosi più critica, che può essere relativa ai disturbi dello spettro schizofrenico. Le problematiche principali in carcere sono rappresentate dall’abuso di sostanze – quindi dalla tossicodipendenza –, intervenuta fuori o dentro le mura, che può associarsi in comorbidità con un disturbo di personalità. Il numero di detenuti con una diagnosi di disturbo dello spettro schizofrenico è esiguo rispetto a coloro che presentano disturbi di personalità o tossicodipendenze, che nel penitenziario di Parma sono maggiormente rappresentati da persone straniere senza fissa dimora o che comunque non hanno la garanzia di avere il permesso di soggiorno. Sono caratterizzate da un’estrema povertà e, a volte, lo psicofarmaco diventa oggetto di smercio e di guadagno, quindi c’è la tendenza a manipolare il sistema per ottenere sempre più medicinali da utilizzare in maniera impropria. Anche quando si parla di suicidi in carcere, bisogna vedere quando e come avvengono. Non si iscrivono sempre in una dimensione psichiatrica, ci sono condizioni che possono portare a fattori di rischio che vanno al di là di essa. Di solito le motivazioni sono più legate al tipo di detenzione, alla durata della pena, alla povertà, all’assenza di una rete familiare di sostegno e a una difficoltà ad avere una difesa idonea che dovrebbe garantire i diritti del detenuto.
Quale dovrebbe essere, invece, il percorso di cura per chi, giudicato non imputabile, ma pericoloso socialmente, finisce nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – Rems?
Quest’anno ricorrono dieci anni dalla Legge 81 del 2014; di fatto in questo decennio le Rems hanno avuto un’evoluzione importante. Siamo partiti da non avere un modello di riferimento, se non quello dell’Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario, ndr), per costruire pian piano, con differenze regionali, culturali e di risorse, un progetto strutturato per quella che il commissario straordinario Franco Corleone ha definito una «rivoluzione gentile». La fase iniziale è stata molto complicata, perché le Rems venivano utilizzate soprattutto per le misure di sicurezza provvisorie. Oggi siamo notevolmente migliorati rispetto a questo punto. Almeno in Emilia Romagna è stata avviata una collaborazione fattiva e operativa tra Regione, dimensione giudiziaria e Dipartimenti di salute mentale, si lavora congiuntamente sul percorso di cura. Di solito abbiamo persone che terminano la loro permanenza nelle strutture in un tempo inferiore rispetto alla durata della misura di sicurezza imposta dal giudice, perché i progetti di cura avviati e orientati ad avere delle misure alternative non detentive sul territorio sono sempre stati realizzati anticipatamente. Solitamente si passa alla libertà vigilata, con uno step intermedio in residenze psichiatriche dove si prosegue l’osservazione con i Csm territoriali di riferimento. L’obiettivo è reintegrare la persona ed eventualmente farla tornare al domicilio e alla famiglia, se sono presenti le garanzie di rientro e quindi il recupero completo.
Quindi voi non avete le lunghe liste d’attesa per le Rems che vengono da più parti denunciate?
Con l’istituzione del Punto unico regionale, che si è rapidamente avviato, da noi abbiamo formalmente una lista d’attesa per le Rems, che però è continuamente monitorata. Abbiamo fatto l’ultima riunione due settimane fa: attualmente ci sono circa 24 persone in lista, ma tutte sono già all’interno di dimensioni alternative per evitare l’ingresso in Rems. Durante questo periodo viene periodicamente fatta una valutazione del progetto riabilitativo da parte del Csm e del Dipartimento di salute mentale territoriale. Si controlla se il progetto ha effettivamente dato buon esito, quindi se la persona ha sviluppato una coscienza e una consapevolezza della malattia e ha aderito totalmente al percorso di cura, che magari si è sviluppato anche con la formula del budget di salute, se si sono mantenuti o implementati nuovamente i rapporti con la famiglia, che sono fondamentali, perché la maggior parte dei pazienti che entrano in Rems oggi lo fanno per maltrattamenti familiari o abusi di sostanze. I servizi, quindi, si assumono la responsabilità di rappresentare al magistrato che si può evitare l’ingresso in Rems, per proseguire, invece, il percorso avviato con una misura non detentiva che di solito è la libertà vigilata. La misura alternativa provvisoria, quindi, può divenire anche quella definitiva: la maggior parte di coloro che sono in lista d’attesa sono in questa condizione. Non abbiamo persone sine titulo in carcere (persone che sono state arrestate che poi sono state dichiarate prosciolte per problemi di salute mentale, ma restano comunque recluse, ndr). Abbiamo realizzato una procedura operativa che è sfociato in un protocollo in cui sono descritti i criteri elettivi d’ingresso in Rems: c’è per esempio il criterio cronologico, quello psicopatologico, che a seconda della gravità può anticipare l’entrata nella struttura rispetto alla lista d’attesa.
Quali sono, invece, i percorsi per coloro che, non imputabili, non vengono giudicati socialmente pericolosi e quindi non dovrebbero confluire nelle Rems?
I percorsi sono sempre percorsi di cura nella cornice giudiziaria delle misure non detentive, spesso il libertà vigilata. Sul territorio di Parma, per esempio, abbiamo in carico al Dsm circa 50 persone in questa situazione. Più o meno il 70% di queste sono a domicilio, mentre il 30% sono nelle residenze psichiatriche. Queste persone sono seguite dai Csm con un coordinamento effettuato dalla mia equipe di supervisione e monitoraggio del percorso di cura. L’andamento del progetto può anche determinare il proseguo della misura non detentiva, perché la libertà vigilata può essere prorogata a oltranza, con una pericolosità sociale attenuata, che non viene mai revocata se non quando la persona viene indicata dagli psichiatri dell’equipe come capace di sviluppare una critica nei confronti del reato, che si evidenzia nei comportamenti e nell’adesione reale al percorso di cura. Con il nostro lavoro, che può essere estremamente faticoso, abbiamo ottenuto di eliminare la pericolosità sociale, e quindi anche la misura, per molti, soprattutto per i giovani. È un aspetto importante, perché ci teniamo ad andare in questa direzione, a mostrare ai ragazzi che, comunque, una misura giudiziaria, come può iniziare, può anche terminare. Ed è fondamentale, perché altrimenti perdiamo per strada questi giovani, che poi non sviluppano un senso di fiducia, che invece è necessario abbiano nei confronti di chi li segue.
fonte: “Vita”