Richiamare i corpi, la loro vulnerabilità e il lutto dovrebbe permetterci di costruire una narrazione che ponga al centro le vittime della guerra. La propaganda bellicista e la retorica militarista lavorano per nascondere o, all’inverso, per spettacolarizzare il dolore. Ribaltare lo sguardo consente di capire e sentire che cos’è la carneficina di massa e ci permette anche di valutare i suoi effetti transgenerazionali, il suo impatto sul futuro e non solo sul presente: dall’amplificazione di una cultura dell’odio, ai danni economici, sul welfare, sulla salute.
La guerra contemporanea coinvolge la popolazione civile, distrugge le infrastrutture sociali, sanitarie, scolastiche. Ha un impatto di lungo periodo sull’ambiente, a livello locale e globale. E ciò non solo quando è combattuta, ma anche quando è preparata dall’industria degli armamenti. La conta dei morti e dei feriti, di per sé, è impressionante: solo a Gaza, la reazione israeliana al terribile attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023 e alla conseguente presa di ostaggi civili ha già causato 28.430 morti e 67.984 feriti, secondo il Ministero della salute di Gaza[1]. Secondo l’Onu, il 70 per cento delle vittime sono donne o minori[2]. In Ucraina sono stati uccisi circa 10.000 civili e i feriti sono decine di migliaia[3], senza considerare i militari (alcune stime hanno contato circa 500.000 morti e feriti[4]; si tratta spesso di giovani uomini obbligati alla leva). In dieci anni di guerra in Siria, dal 2013 al 2023, sono state uccise più di 300.000 persone[5]. Sono stati stimati 4.360 morti solo nel 2023[6]. Tuttavia, solo se si guarda all’estensione degli effetti prodotti dalla guerra, si riesce a capirne tutte le implicazioni e a soffermarsi sul lutto, sul dolore e sulla devastazione che questa carneficina porta con sé.
Uso il termine “carneficina” di proposito, per riprendere una proposta lessicale avanzata alcuni anni fa nelle sue lezioni di filosofia del diritto da Luigi Lombardi Vallauri, il quale invitava a sostituire questo termine alla parola guerra, che rimanda al conflitto ma non è in grado di evocare le stragi. “Carneficina” permette di evidenziare come la guerra colpisca i corpi, crei sofferenza, dolore, morte. Questa proposta si avvicina a quella formulata da Adriana Cavarero: abbandonare la parola “terrorismo” e utilizzare invece “orrorismo”[7], per sottolineare non tanto l’effetto strategico che il terrorismo intende sortire diffondendo insicurezza e paura, quanto l’orrore dei corpi martoriati negli attacchi. Il richiamo alla “carne” si rafforza se non ci si limita a contare i corpi feriti e uccisi dagli ordigni, ma si considerano anche i corpi che si ammalano a causa della guerra e quelli malati che non possono essere curati. A questi possiamo aggiungere i corpi dei bambini che nascono in tempo di guerra e che incontrano difficoltà nella crescita. Indelebili le immagini dell’ospedale di Gaza in cui si sono dovuti togliere i prematuri dalle incubatrici per la mancanza di elettricità dovuta all’assedio.
Richiamare i corpi, la loro vulnerabilità e il lutto, come già aveva fatto all’indomani della decisione statunitense di attaccare l’Afghanistan Judith Butler[8], dovrebbe permetterci di costruire una narrazione che ponga al centro le vittime della guerra. La propaganda bellicista e la retorica militarista lavorano per nascondere o, all’inverso, per spettacolarizzare il dolore, costruendo quelle che Butler ha chiamato “Frames of War”[9], cornici di guerra. Ribaltare lo sguardo consente di capire e sentire che cos’è la carneficina di massa e ci permette anche di valutare i suoi effetti transgenerazionali, il suo impatto sul futuro e non solo sul presente: dall’amplificazione di una cultura dell’odio, ai danni economici, sul welfare, sulla salute, etc. Dover ricostruire infrastrutture sanitarie distrutte significa attendere decenni prima di poter avere lo stesso livello di cura, se mai lo si raggiunge di nuovo. Da questi effetti derivano ulteriori sofferenze e morti.
Nel 2004, l’inviato del Süddeutsche Zeitung in Vietnam, constatando la persistenza di malformazioni congenite causate dagli erbicidi tossici usati dagli americani durante la guerra, si chiese: «Quando finisce la guerra? Quando le armi tacciono o quando si smette di morire?». Questa frase è riportata nell’importante libro Guerra o salute di Pirous Fateh-Moghadam che tratta proprio questo tema[10]. La guerra smette di uccidere molto dopo rispetto al momento in cui le armi tacciono: ci sono implicazioni sulla salute e sulla psiche, legate non solo all’uso di certe armi, alla malnutrizione, alla diffusione di virus, alla sospensione delle cure ordinarie, all’inquinamento, ma anche all’uso ormai strutturale della violenza di genere, in particolar modo dello stupro, come arma di guerra. Non sono effetti collaterali, ma danni scientemente inflitti nel quadro di guerre in cui la popolazione civile, le infrastrutture sanitarie, quelle scolastiche, etc. divengono obiettivi. È il modello della guerra priva di limiti, tipico dei contesti coloniali, che oggi si ripresenta in un mondo attraversato dalla frattura coloniale, persino nel cuore dell’Europa.
Il faticoso tentativo fatto all’indomani delle guerre mondiali per costruire uno ius in bello, in grado di contenere i conflitti e risparmiare le popolazioni civili – penso in particolare alle Convenzioni di Ginevra – è stato progressivamente smantellato. Ciò è avvenuto, in parte, grazie al recupero dell’idea elaborata dalla Scolastica di iusta causa belli e al conseguente disconoscimento del nemico come iustus hostis, voluti, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, dalle amministrazioni statunitensi e dai loro alleati; in parte, per il riproporsi di un paradigma coloniale sempre più esplicito e violento che consente di distinguere fra “vite degne di lutto” e “vite indegne di lutto”[11]. E così, la “guerra giusta” è spesso una guerra efferata e si collega alle necropolitiche migratorie, che hanno ormai normalizzato la morte di migliaia di persone affogate, uccise dal freddo e dagli stenti o dalla violenza delle milizie informali – pensiamo alla Libia – e talora anche delle polizie di frontiera. Eppure basterebbe assumere lo sguardo capovolto, quello della vittima presente e delle vittime future, per rendersi conto che, non solo la guerra non può mai essere “giusta” da un punto di vista etico, ma non può neppure essere, come invece si è cercato di argomentare alla fine del Novecento, una sanzione, perché le mancano i requisiti della proporzionalità e della personalità della pena per poter essere tale. La guerra è sempre smisurata e colpisce sempre anche gli innocenti. Per questo non può essere intesa come uno strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
Il diritto internazionale cosmopolitico creato dopo la Seconda Guerra mondiale è rimasto incompleto, a causa della volontà delle potenze vincitrici di mantenere un ordinamento gerarchico[12]. Molti oggi ne denunciano l’ineffettività. E tuttavia – lo vediamo di fronte ai massacri di Gaza guardando al ruolo della Corte internazionale di Giustizia – è forse ancora l’unico strumento che consente di andare oltre un confronto muscolare fra potenze. Se non altro, può servire a riequilibrare il dibattito pubblico nei paesi che sostengono o conducono le guerre, laddove si tratti di democrazie, invocando il rispetto dei diritti fondamentali e del diritto bellico. Limitarsi a denunciare l’ineffettività del sistema, senza pretendere la sua attuazione, significa contribuire alla rilegittimazione e alla normalizzazione della guerra che sono in corso[13]. Oggi, nella crisi dei movimenti pacifisti che, anche quando non sono divisi, ricevono sempre meno ascolto dalle istituzioni, dobbiamo avere il coraggio di fare dei passi avanti e non dei passi indietro. Il primo è quello di partire da una denuncia della proliferazione delle armi convenzionali e nucleari. Queste hanno raggiunto una numerosità e una potenza inaccettabili sul piano etico. L’industria delle armi e della guerra è inoltre un tassello fondamentale del capitalismo contemporaneo che si regge anche sulla shock economy[14].
Vorrei infine accennare alla promozione della pace. Questa non può solo essere invocata di fronte alle gravi violazioni del diritto internazionale, ma va costruita ogni giorno, sia perché le guerre sono molte – dalla Palestina, all’Ucraina, alla Siria, all’Etiopia, al Sudan, allo Yemen, per citare solo le principali –, sia perché solo una diffusa conoscenza degli effetti della guerra e una diffusa cultura non violenta possono incrementare la consapevolezza dell’opinione pubblica e contrastare la polarizzazione e la strumentalizzazione del dibattito politico. Bisogna, da un lato, come ci suggerisce un altro filosofo del diritto, Luigi Ferrajoli[15], rafforzare l’utopia concreta del cosmopolitismo internazionale postbellico – che è stato superato e strumentalizzato dalle potenze occidentali nell’era dell’egemonia statunitense – e dall’altro forgiare una cultura che si opponga alla violenza come elemento strutturale del capitalismo, un elemento che tuttavia non si limita a organizzare le relazioni fra paesi e tra popoli ma regola anche le relazioni interpersonali. Qui vorrei richiamare la nozione di “società della cura”, utilizzata da Nicoletta Dentico nella sua prefazione al libro già citato di Fateh-Moghadam, dove scrive che la società della cura è resa sempre più necessaria dalle sventure del tempo presente e che essa ha il suo nodo essenziale intorno ai temi della salute dei corpi, delle comunità, degli ecosistemi. Al di là delle considerazioni giuridiche e di quelle geopolitiche, va posto il tema di un cambio di paradigma. Un nuovo paradigma sembrava essersi affacciato nel periodo della pandemia: la valorizzazione di un’etica della cura, fondata sulla comune vulnerabilità ontologica dei viventi, in grado di innervare la partecipazione democratica e innescare un cambiamento istituzionale, secondo il modello che Joan Tronto ha chiamato della “democrazia della cura”[16]. Alla diffusione di questo nuovo modello politico e antropologico potrebbe contribuire una “diplomazia della cura” – intesa nel doppio senso di “care” e di “cure” (penso agli operatori sanitari sia nazionali, sia presenti nei teatri di guerra, come Emergency, Médecins sans frontières etc.) – che rimetta al centro i corpi straziati dalla carneficina di massa, ma anche quelli sfruttati nei campi, affogati in mare, uccisi alle frontiere, suicidi nelle carceri, etc. Siamo schiacciati dalla potenza della tecnologia militare, che peraltro si insinua sempre più anche in ambiti considerati civili, e dallo squilibrio del potere geopolitico ed economico.
E tuttavia, proprio per questo, è quanto mai urgente costruire una cultura della pace che non sia retorica, ma si traduca in competenze, da rafforzare ogni giorno. Questa cultura può prendere le mosse – come anche Fateh-Moghadam indica guardando al servizio sanitario – dai servizi di quel welfare che oggi si vuole invece smantellare, anche perché è strumento di uguaglianza e costituisce la “base materiale” sulla quale si fondano la democrazia e la pace.
Lucia Re. Professoressa associata di Filosofia del diritto, Università di Firenze
Riferimenti
[1] Dati aggiornati al 13 febbraio 2024.
[2] Stima al 19 gennaio 2024, https://www.unwomen.org/en/news-stories/press-release/2024/01/press-release-two-mothers-are-killed-in-gaza-every-hour-as-fighting-exceeds-100-days
[3] Missione di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni Unite, ottobre 2023, https://unric.org/it/ucraina-il-rapporto-documenta-laumento-delle-morti-e-delle-violazioni-dei-diritti-umani/
[4] https://www.nytimes.com/2023/08/18/us/politics/ukraine-russia-war-casualties.html
[5] Still I Rise, Nord-ovest della Siria. La terra trema sotto le bombe: 12 anni di conflitto e sfollamento, marzo 2023, https://www.stillirisengo.org/it/news/una-bolla-pronta-a-scoppiare-12-anni-guerra-civile-siria/
[6] Dato pubblicato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2023/12/31/ong-oltre-4.360-morti-nella-guerra-in-siria-nel-2023_393aa990-9432-4d72-9b5b-b9f198cdd9d7.html#:~:text=Pi%C3%B9%20di%204.360%20persone%2C%20tra,siriano%20per%20i%20diritti%20umani
[7] A. Cavarero, Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano 2007.
[8] J. Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Meltemi, Milano 2018.
[9] J. Butler, Frames of War. When Is Life Grievable?, Verso, London and New York 2009.
[10] P. Fateh-Moghadam, Guerra o salute. Dalle evidenze scientifiche alla promozione della pace, Il Pensiero scientifico, Roma 2023, p. 61.
[11] Cfr. J. Butler, Vite precarie, cit.
[12] Cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995.
[13] Cfr. T. Mazzarese, Guerra in Ucraina e le (in)certezze del pacifismo, Giappichelli, Torino 2023.
[14] N. Klein, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli, Milano 2008.
[15] Cfr. L. Ferrajoli, Per una costituzione della Terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli, Milano 2022.
[16] J. Tronto, Caring Democracy. Markets, Equality, and Justice, New York University Press, New York 2013.
fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2024/02/guerra-diritto-vulnerabilita/