Sono numerose le situazioni nello scenario della cura che presentano dilemmi difficili da sciogliere. Quando si tratta poi di bambini è forse il caso di evocare la metafora che ha dato il titolo al romanzo di Henry James Il giro di vite: se in una narrazione sono presenti dei bambini, ha luogo un “giro di vite”, che rende il racconto più stringente e forti le contrapposizioni ideologiche. Da cui uscire. L’auspicio è quello di un approccio che permetta al curante di entrare nell’ambito delle scelte etiche delle persone che cura in punta di piedi, con un accompagnamento che chiameremmo “gentile”.
Appaiono sul palcoscenico delle notizie di cronaca per qualche giorno o solo per qualche ora, poi sono risucchiati nella palude delle cose gravose che ci assediano. Pensiamo alla neonata Indi Gregory e al dibattito che si è acceso: prolungare le cure che la tenevano in vita, come desideravano i suoi genitori, o optare per la desistenza terapeutica, secondo le indicazioni dei sanitari e dei magistrati. I conflitti scatenati da questo caso erano stati anticipati, qualche anno fa, da situazioni analoghe, delle quali ricordiamo i nomi dei protagonisti, come Archie Battersbee e Alfie Evans: medici e genitori in disaccordo sull’opportunità di mantenere il supporto vitale e l’intervento discusso dell’autorità giudiziaria per decidere al posto loro. Anche se l’attenzione a questi casi clamorosi progressivamente sfuma, i nomi dei protagonisti continuano a essere presenti nella memoria pubblica e ci rimandano a un capitolo problematico della nostra convivenza sociale: il vasto ambito delle questioni etiche perplesse che attraversano il mondo delle cure mediche e ci vedono schierati su fronti diversi.
Oggi forse al centro degli interrogativi sta un feto, sbocciato in una situazione estrema: chi l’ha concepito e lo porta in grembo è una persona in transizione di genere: già donna, ha optato per il genere maschile, con gli interventi ormonali e chirurgici richiesti, ma in mezzo al guado ha concepito un bambino. Che cosa fare? Sono numerose le situazioni nello scenario della cura che presentano dilemmi difficili da sciogliere. Quando si tratta poi di bambini è forse il caso di evocare la metafora che ha dato il titolo al romanzo di Henry James Il giro di vite: se in una narrazione sono presenti dei bambini, ha luogo un “giro di vite”, che rende il racconto più stringente. Possiamo estendere l’immagine a numerose situazioni cliniche in ambito pediatrico che creano situazioni conflittuali, per quanto non drammatiche ed estreme.
Anche nell’altro estremo dell’arco vitale, benché manchi il “giro di vite” infantile, le decisioni di fine vita tendono a polarizzare i giudizi morali. È il caso in particolare delle richieste di suicidio medicalmente assistito. La nostra cultura dimostra di trovarsi in quella situazione che Durkheim chiamava di anomia, ovvero di incertezza relativamente a ciò che è accettabile e ciò che non lo è, e di cambiamento di confini tra ciò che è approvato e ciò che non lo è.
Se la nostra attenzione si sposta dai contenuti dei dibattiti sull’etica in medicina alle modalità in cui avvengono, ci rendiamo conto che in quell’ambito che è stato denominato bioetica prevalgono gli scontri e contrasti frontali. Menzioni l’etica nel contesto medico e l’associazione mentale più spontanea è quella con l’etica vestita di ideologia. Questa riposa sulla convinzione soggettiva di sapere che cosa sia riprovevole nell’ambito della cura. La convinzione può reggersi su fondamenti religiosi – venendo praticamente a corrispondere a una morale confessionale – o su argomentazioni razionali. L’ideologia non lascia comunque margini che non siano di contrapposizioni. Anche quando non vengano esplicitamente evocati “principi non negoziabili”, il mondo sanitario viene invaso da un diluvio di “giusto” e “sbagliato” che non si lasciano conciliare.
Una modalità alternativa di far intervenire l’etica in questo scenario è di affidarsi alle regole giuridico-amministrative. Ci sono comitati che si qualificano come “etici”, ci sono studiosi che rivendicano il profilo di esperti: delegare a loro le decisioni potrebbe essere visto come una soluzione per evadere dalla complessità. Per fare un solo esempio: anche la sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, che descrive il perimetro delle situazioni in cui sarebbe permesso accedere al suicidio medicalmente assistito, ne affida l’esecuzione a una struttura del servizio sanitario nazionale, “previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Si potrebbe sintetizzare: il comportamento è eticamente corretto quando lo prescrive il “comitato etico”.
Le competenze nell’ambito etico sono certamente una risorsa da valorizzare in modalità di consulenza. Il rischio è semmai quello che il contesto clinico – dove interagiscono e si confrontano, con i diversi interessi e scale di priorità, malati, professionisti sanitari, caregiver – sia espropriato della propria capacità di trovare le risposte più appropriate. Per dirlo con termini inglesi, il percolo è che una “armchair ethics” spodesti la tradizionale “bedside ethics”, ovvero che un’etica proveniente dalle cattedre di filosofia prenda il posto di quella che nasce al letto del malato. Riducendo così la cura a riparazione e spogliandola delle componenti umanistiche che devono caratterizzarla, sintetizzate nell’aggettivo “buona” che è chiamato a caratterizzare la cura.
Senza snaturare l’etica in medicina, abbiamo bisogno di valorizzare altre sue modalità di presentazione. La “moral suasion” è una di queste. Il topos più celebre in tal senso è la parabola evangelica del Buon Samaritano, che si conclude con l’esortazione: “Va’ e fa’ anche tu altrettanto” (Luca 10, 37). Siamo nell’ambito delle buone pratiche, che meritano di essere conosciute e imitate. Anche nel modo di innervare con l’etica le decisioni cliniche. È il terreno privilegiato della medicina narrativa. Esemplari in tal senso sono le “Storie Slow”. Il movimento che si colloca sotto lo slogan della Slow Medicine e si propone di promuovere “cure sobrie – rispettose – giuste” ha dato vita, nel proprio sito, alla raccolta di una serie di racconti qualificandoli, appunto, come Storie Slow. Leggiamo nella presentazione deIla serie di racconti che l’obiettivo è quello di descrivere la Slow Medicine in azione, così come si concretizza nei vissuti dei professionisti che a essa si ispirano e nelle esperienze di coloro che ricorrono alle loro cure: “Quali scelte fa un professionista slow diverse da quelle che farebbe uno fast? Tutti hanno vissuto episodi, esperienze, momenti nei quali è scaturito qualcosa di insolito, qualcosa che ha fatto dire: Ecco, una medicina così mi piace; questo professionista ha saputo capirmi e mi ha aiutato davvero”.
La prima piacevole sensazione che produce la lettura delle Storie Slow è che il centro di gravità si sia ristabilito nella pratica clinica. Il sottotitolo con cui si presentano le storie – “dall’ideologia alla corsia” – suona programmatico. Un programma forse esageratamente critico nei confronti di un’etica che pretende di plasmare dall’esterno i comportamenti di chi è coinvolto nella cura; ma ha il vantaggio di focalizzare l’attenzione sul pluralismo dei valori, e quindi sulla molteplicità delle posizioni morali che emergono nello scenario clinico. È stato uno dei contributi maggiori del movimento internazionale della bioetica quello di polarizzare l’attenzione sul fatto che gli “stranieri morali” – per usare l’espressione coniata dal bioeticista Tristam Engelhardt – non vengono dal di fuori del nostro abituale ambito culturale, ma sono cittadini di una stessa cultura.
Nella stessa direzione in cui ci indirizzano le buone storie prodotte da una medicina che sa dialogare – dove l’etica assume una modalità di presentazione che potremmo chiamare piuttosto parenetica, cioè esortativa – si muovono le pratiche riconducibili alla strategia del “nudge”, ovvero alla “spinta gentile”. Ciò avviene quando l’organizzazione presenta procedure che facilitano la scelta migliore, pur senza imporla. Pensiamo al ruolo che può avere l’informazione, se è fatta con parole oneste e accompagna l’evolversi delle situazioni cliniche.
L’auspicio è che si riesca a mettere in discussione non tanto ciò che afferma l’etica, ma la modalità in cui si propone; e si trovino modi alternativi alla contrapposizione ideologica. Se dei giuristi hanno potuto proporre un “diritto gentile”, lo stesso potremmo proporre all’etica clinica. L’auspicio è quello di un approccio che permetta al curante di entrare nell’ambito delle scelte etiche delle persone che cura in punta di piedi, con un accompagnamento che chiameremmo “gentile”. Sempre: sia quando le perplessità sono lievi, sia quando acquistano un profilo drammatico.
fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2024/02/il-giro-di-vite-sui-problemi-etici/