Si sta discutendo molto sulla legge che introduce nel nostro ordinamento l’autonomia differenziata.
Dobbiamo subito fare una premessa, e cioè che ci sono paesi, come ad esempio gli USA, in cui vi sono differenze molto rilevanti tra gli Stati che lo compongono, si pensi solo alla presenza assenza della pena di morte. Ma questi paesi hanno un assetto federale e dobbiamo chiederci se quello che vogliamo sia in realtà un tentativo di trasformare l’Italia in uno stato federale ritornando, più o meno, alla situazione preunitaria.
Parlare di autonomia è molto vago se non si entra comunque nel merito delle regole che le si vogliono assegnare, ed in particolare ciò che riguarda i diritti dei cittadini e la disponibilità delle risorse.
Limitandoci a ragionare di sanità, dobbiamo riflettere su ciò che potrebbe succedere a riguardo della ripartizione del fondo sanitario e della definizione dei livelli essenziali di assistenza.
Oggi le risorse per il servizio sanitario nazionale sono determinate a livello centrale e ricavate dalle entrate fiscali di tutto il paese. Il fondo viene poi ripartito secondo criteri che, almeno in linea teorica, dovrebbero corrispondere ad uguali bisogni della popolazione.
Chi ha vissuto le vicende relative alle formule di riparto ben sa che queste sono sempre state in fondo solo un accordo politico in cui le Regioni più influenti sono sempre riuscite ad ottenere dei vantaggi. Ma questi vantaggi comunque non hanno stravolto l’equità della distribuzione se non marginalmente.
Le differenze tra i pro capite delle risorse ripartite, qui sopra relative al 2023, dipendono soprattutto, ma non solo, dalla struttura per età della popolazione, molto anziana ad esempio in Liguria e giovane in Campania, ma la Liguria ha solo un’assegnazione del 7% superiore alla Campania.
Se invece, domani, saranno le Regioni stesse a trattenere le risorse raccolte con le tasse, e ad usarle per finanziare la loro stessa sanità, ci saranno sistemi sanitari regionali ricchi e sistemi poveri a seconda della ricchezza della popolazione. Usando una stima disponibile, seppur approssimativa, dei PIL regionali pro capite, si può provare a calcolare quanto sia la proporzione del finanziamento pro capite assegnato oggi alla sanità delle Regioni:
Se la sanità dovesse essere finanziata dalle sole risorse prodotte in Regione (cioè dal PIL regionale) si andrebbe, con i valori dell’attuale ripartizione, da meno del 5% del PIL del Trentino Alto Adige a più del 12% del PIL della Calabria.
Si parla allora di un possibile meccanismo di perequazione, ma come sarà possibile trovare risorse per i “poveri” se i “ricchi” se le sono già trattenute per la maggior parte in casa? Se saranno invece i “ricchi” che dovranno perequare i “poveri” ai livelli di oggi allora, da questo punto di vista, si sarebbe fatto solo un polverone perché niente cambierebbe se si ritornasse ad una ripartizione di risorse simile a quella attuale. E’ invece molto più probabile che i “ricchi” avranno molte risorse per la loro sanità ed i “poveri” dovranno accontentarsi del minimo disponibile.
Ed allora si dovrebbe arrivare a determinare qual è il livello essenziale di prestazioni che deve essere garantito da una Regione, cioè si devono determinare Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) o come oggi si preferisce chiamare, allargandoli anche a settori non sanitari, i livelli essenziali di prestazioni (LEP).
E si badi bene ad usare il termine “essenziali” e non “minimi” perché i livelli minimi di assistenza non sono certo quelli di un sistema sanitario oggi accettabile.
Ma di LEA si parla già da oltre vent’anni e in sanità sono stati più volte definiti e ridefiniti. Ma hanno funzionato? In parte si, più per dire ciò di cui non si aveva diritto che per garantire realmente parità di assistenza. I LEA per lo più hanno però definito solo i “nomi” delle prestazioni erogabili, ma nonostante alcuni tentativi in tal senso, non hanno potuto definire la parità delle modalità di erogazione.
Tutti sappiamo quante differenze tra Regioni nei tempi di attesa per ottenere una prestazione, ma anche le differenze di qualità delle prestazioni stesse. Non è sicuramente solo la regionalizzazione della sanità che abbia creato queste differenze, frutto di molti fattori economici, sociali e culturali per lo più storicizzati da decenni.
Peraltro, un conto è l’aver previsto una regionalizzazione della gestione della sanità con un livello centrale molto presente e con un ruolo preminente, un altro è invece una totale autonomia delle Regione nel governo della sanità con un probabile ruolo molto debole da parte della Stato. Un sistema complesso come la sanità necessita di livelli decentrati di gestione, ma anche di un livello centrale di governo unificante.
Nella valutazione dell’adempienza delle Regioni rispetto al mantenimento dell’erogazione dei LEA già da ora, nonostante tutto, si osserva una associazione con il PIL regionale; le Regioni più ricche hanno già oggi una adempienza maggiore rispetto alle Regioni più povere.
Ma chi può pensare seriamente che un aumento del grado di autonomia possa invece riuscire ad invertire la situazione? Di sicuro l’aumenterà innescando via via sempre maggiore conflittualità tra i territori, conflittualità che minerà l’unitarietà sociale del paese. E si dovrà aspettare che i “più poveri” diventino di più dei “più ricchi” per vedere una inversione del credo autonomista?
Purtroppo, questa autonomia che tende all’egoismo dei territori più benestanti, rischia di impedire lo sviluppo di livelli autonomi di applicazione delle regole comuni a tutti. Ci sono sicuramente differenze ambientali, culturali, sociali etc. che non rendono buone per tutti le stesse soluzioni nazionali. Ma questa autonomia è tutt’altra cosa dell’autonomia differenziata di cui si sta parlando e che è frutto postumo e maldestro degli analisti di separatismo che abbiamo vissuto a fine ‘900 e che sono presenti ahimè in molti paesi dove i “ricchi” non vogliono più contribuire proporzionalmente al governo comune come i “poveri”, ed allora si parla di flat tax e di tante altre invenzioni per garantire più diritti e più risorse a chi già ne ha di più.
Sarà allora determinante valutare molto bene le modalità con cui si deciderà di declinare questa autonomia differenziata che può anche rimanere solo uno slogan preelettorale, ma può diventare anche un grosso rischio di disgregazione del paese. Speriamo invece che si riesca solo più saggiamente ad aumentare la responsabilità gestionale delle Regioni mantenendo un livello di governo centrale efficace.
Sarà una autonomia differenziata che produrrà semplicemente delle differenze autonomiste? ahimè speriamo di no! Ma non si pensi neppure che la soluzione sia di ritornare ad un sistema sanitario che elimini la regionalizzazione. Piuttosto si considerino dei nuovi meccanismi per ampliare la responsabilizzazione delle Regioni e parimenti garantire la capacità del Governo centrale di garantire una reale equità di accesso e di qualità dell’assistenza in tutto il paese.
fonte: https://epiprev.it/blog/come-sta-la-sanita/autonomia-differenziata-o-differenze-autonomiste