Zone 30: un dibattito ben poco informato. di Andrea Debernardi

Le zone 30 esistono da decenni in varie città europee, ma anche in Italia. E sono state analizzate sotto i più diversi profili. Presentare come estemporanea la scelta del comune di Bologna significa ignorare sperimentazioni a livello internazionale.

Quali indicatori per valutare le zone 30

Si può certo concordare che le scelte strategiche sulle politiche pubbliche debbano essere assunte anche sulla base di adeguate evidenze scientifiche a sostegno di valutazioni ex ante e siano poi sottoposte a monitoraggio accurato in modo da pervenire a valutazioni ex post. Tuttavia, occorre anche che gli indicatori utilizzati siano pertinenti, in relazione ai fattori rilevanti sul piano scientifico, e basati su serie di dati adeguate a sostenerli, pena l’insorgere di errori prospettici anche vistosi.

Da questo punto di vista, l’intervento di Guglielmo Barone, Emma Manneschi e Giulia Romani sulle zone 30 bolognesi non riesce a cogliere il punto, e ciò almeno per tre ordini di ragioni.

In primo luogo, gli indici di incidentalità più pertinenti per il caso in esame dovrebbero essere costruiti considerando non soltanto il numero dei sinistri – da molti anni oggetto di accurate rilevazioni statistiche – ma anche i corrispondenti livelli di traffico – spesso meno noti, quanto meno al livello di dettaglio richiesto da questo genere di analisi. In altre parole, gli indici più efficaci sono espressi in termini di sinistri occorsi per veicolo-km, cioè per il numero totale di chilometri percorsi dai veicoli all’interno del perimetro di studio in una certa unità di tempo. Ne consegue che, in taluni casi, il numero di incidenti può aumentare anche con tassi di incidentalità stabili o decrescenti, semplicemente a causa di un aumento del traffico. È quanto è avvenuto negli ultimi anni: il repentino ritorno ai livelli di traffico pre-pandemici si è accompagnato, a scala nazionale, all’interruzione della tendenza alla diminuzione del numero di incidenti, che si era manifestata da inizio secolo. Così, il fatto che tra il 2014 ed il 2016 il numero di incidenti sugli archi stradali bolognesi presi in esame sia risultato costante potrebbe anche rimandare a un miglioramento della situazione, perché nel frattempo i corrispondenti volumi di traffico potrebbero essere aumentati. E in ogni caso, vista la natura delle conseguenze studiate, sembrerebbe opportuno non limitare le conclusioni ai soli effetti di breve termine (biennio 2015-2016), ma estenderle all’intero periodo 2017-2022, i cui dati sono certamente disponibili.

In secondo luogo, e come richiamato dagli autori stessi in conclusione, l’ampia evidenza scientifica sugli effetti delle zone 30 indica che essi consistono in una riduzione non tanto del numero degli incidenti, quanto della loro gravità, comunemente misurata in base al numero di persone che hanno riportato danni (morti o feriti), se non addirittura al numero di giorni di prognosi indotto dai sinistri. Gli indicatori più pertinenti sono rappresentati, in questo caso, dagli indici di lesività (numero di morti o feriti per sinistro) e di letalità (numero di morti su totale persone coinvolte), generalmente più facili da determinare degli stessi indici di incidentalità, in quanto non richiedono l’incrocio con dati di altra fonte (i volumi di traffico), ma unicamente di informazioni normalmente raccolte in occasione dei sinistri stessi. Tutti gli esperti del settore sanno molto bene che le zone 30 sono oggetto da almeno quarant’anni di approfondite analisi e che su questo punto la letteratura scientifica offre evidenze ampie e concordi, basate sia su valutazioni teoriche, sia su osservazioni empiriche. Purtroppo, però, su questi aspetti cruciali l’intervento relativo al caso bolognese non ci dice nulla.

La questione della sperimentazione

In terzo luogo, l’affermazione secondo la quale il comune di Bologna, prima di attuare il limite generalizzato a 30 chilometri orari, avrebbe dovuto sperimentare la misura su piccola scala, è contraddetta dalle stesse osservazioni degli autori che, appunto, fanno riferimento a sperimentazioni di questo genere effettivamente avviate dall’amministrazione bolognese quasi dieci anni fa. Per poter trarre conclusioni circostanziate, dovrebbero entrare qui in gioco considerazioni ulteriori, relative alle modalità di implementazione delle misure nelle zone studiate, che possono andare da un semplice adeguamento della segnaletica a una completa riprogettazione dello spazio stradale, con esiti a loro volta ampiamente variabili in termini di effettivo rallentamento dei flussi veicolari: infatti, tutti gli studi seri condotti negli scorsi decenni, oltre agli incidenti e ai volumi di traffico, si sono preoccupati di misurare anche le variazioni di velocità effettivamente indotte dalle misure adottate.

In generale, comunque, l’istituzione di “zone 30” estese a interi quartieri è attuata in molte città italiane da almeno vent’anni, e in quelle europee da quaranta, se non cinquanta. Si è trattato spesso di situazioni ampiamente monitorate, in particolare rispetto ad aspetti, come la sicurezza stradale, che sono oggetto di sistematica rilevazione statistica, tanto da far entrare questi sistemi all’interno della normativa tecnica della maggior parte dei paesi europei, inclusa l’Italia (seppure in modo un po’ confuso). Aprire oggi un nuovo dibattito sul tema ripartendo praticamente da zero è come sostenere che prescrivere l’aspirina a un paziente di Forlimpopoli non è giustificato, dato che i corrispondenti trial, pure accurati, hanno coinvolto solo persone residenti in altre località dell’Emilia-Romagna.

Pertanto, per gli esperti del settore fa veramente un po’ specie assistere a una discussione pubblica nella quale sembra quasi che la scelta del comune di Bologna caschi dal cielo e vada imputata a una delle solite iniziative estemporanee e frettolose di amministratori avventati. Agli occhi di chi da decenni progetta e realizza strade a velocità moderata, un dibattito di questo tenore tende forse a evidenziare, più che gli effetti (ampiamente noti) delle “zone 30”, il livello di ignoranza (ahimè ancora non pienamente noto) di molti commentatori italiani.

Tutto questo non vale certo a sostenere che la scelta bolognese della “Città 30” sia di per sé adeguata e priva di effetti sistemici anche indesiderati, ma richiama la necessità di improntare il dibattito sui migliori standard internazionali, evitando il rischio del provincialismo, sostenuto in questi giorni da molti interventi assai poco informati, provenienti purtroppo anche da alcuni massimi esponenti di governo.

fonte: https://lavoce.info/archives/103599/zone-30-un-dibattito-ben-poco-informato/

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