C’è preoccupazione, come testimoniano molti interventi qui su Qs, circa i ritardi nella effettiva realizzazione delle strutture previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ed in particolare delle Case della Comunità (CdC) e degli Ospedali di Comunità (OdC), documentati tra l’altro di recente dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, e sul rischio che una volta realizzate ci sia l’impossibilità di farle funzionare per carenza di personale, come segnalato più volte dalle Regioni. La nostra impressione è che vi sia un terzo e ulteriore problema: nell’autonomia incontrollata delle Regioni le progettualità del PNRR corrono il rischio di essere tradite nel loro spirito dalla concreta realizzazione che se ne farà da parte delle Regioni. E’ questo il caso della Lombardia e delle Marche, le Regioni in cui chi scrive ha a lungo operato e che conosce bene (GB per la Lombardia e CMM per le Marche). La nostra chiave di lettura è semplice: il PNRR e il DM 77 hanno un obiettivo chiaro, anche se magari non tradotto in indicazioni tutte condivisibili, e cioè puntare ad un riequilibrio/integrazione tra assistenza ospedaliera e assistenza distrettuale come richiesto dalla prevalenza della cronicità come problema di salute.
La esperienza delle due Regioni Lombardia e Marche evidenzia il rischio della sostanziale trasformazione dei tre nodi della rete territoriale rinnovata – CdC, OdC e COT – da strutture funzionalmente integrate come indicato da AGENAS in appendici della organizzazione e della cultura dell’Ospedale. La nostra ipotesi è che, in assenza di un monitoraggio centrale dei Piani Regionali di utilizzo delle risorse del PNRR che entri nel merito dei modelli organizzativi e culturali sottesi agli interventi strutturali, rischiamo in alcune Regioni di ritrovarci a interventi completati una sanità più vecchia e ingessata di quella pre-PNRR e pre-DM 77. In questo intervento ci concentreremo in particolare sugli OdC.
Il disallineamento tra progettualità nazionali ed implementazione regionale
In linea teorica il problema della mancanza di una cultura comune di fondo sui servizi previsti da PNRR e DM 77 non si dovrebbe porre, visti ad esempio i numerosi contributi di indirizzo dell’Agenas, come il recente Documento Agenas sull’infermiere di famiglia o comunità preceduto da quelli sulle Case della comunità, sull’Ospedale di Comunità e sulle Centrali Operative Territoriali. L’esperienza insegna però che non basta fare un Decreto o un atto di indirizzo per determinare un impatto coerente con le sue indicazioni nelle Regioni. Tra il disegno riformatore e la sua realizzazione concreta si frappone il cosiddetto implementation gap, sovente di tale entità da mettere a repentaglio il raggiungimento degli obiettivi del progetto originario.
Quello che rischia di avvenire con il PNRR e il DM 77 ha dei precedenti sia a livello ospedaliero che territoriale. A livello ospedaliero il DM 70, che era la base per una progressiva razionalizzazione della rete ospedaliera e il contestuale investimento sulle reti territoriali, è stato largamente inapplicato nella stragrande maggioranza delle Regioni. A solo titolo di esempio, le Marche hanno approvato un Piano Socio Sanitario e un Programma di Edilizia ospedaliera del tutto difformi dalle indicazioni del DM 70, di fatto non solo confermando, ma addirittura accentuando, la dispersione delle strutture ospedaliere che il DM 70 voleva contrastare. Quanto alle reti territoriali basta tenere presente quel che è successo col Piano Nazionale della Cronicità (PNC) e col Piano Nazionale Demenze. Sulla cronicità venne costituito nel 2021 un Gruppo Interparlamentare che nel settembre 2022 produsse il suo Documento conclusivo che confermava disomogeneità e ritardi. Dopo di che la cronicità è uscita dai radar del dibattito sulla evoluzione del Servizio Sanitario Nazionale, travolta da altre priorità anche mediatiche e quindi di consenso, come quella sulla crisi dei Pronto Soccorso e l’ulteriore allungamento delle liste di attesa. C’è tornata solo di recente col XXI Rapporto di Cittadinanzattiva sulle Politiche della cronicità che già dal titolo la dice lunga sullo stato di attuazione del Piano della cronicità in Italia: “Nel labirinto della cura”. E anche sulle demenze per documentarsi nei ritardi del Piano Nazionale basta andare al comunicato stampa dell’Istituto Superiore di Sanità del marzo 2022 pubblicato dopo una survey nazionale sui Centri dedicati. E da allora le cose possono essere solo peggiorate.
Un esempio emblematico del disallineamento tra il quadro di riferimento nazionale e quello applicativo regionale è venuto dalla esperienza della Presa in Carico (PiC) lombarda avviata nel 2017. Tra gli elementi comuni ai vari modelli regionali indicati nel PNC erano assenti i tratti ritenuti innovativi della PiC del modello lombardo, vale a dire i Gestori organizzativi e i Clinical Manager specialistici candidati alla PiC dei cronici in sostituzione dei generalisti territoriali. La scelta lombarda, unica tra le Regioni, di spostare il baricentro delle cure della cronicità dall’assistenza primaria a quella specialistica, specie del livello ospedaliero, era dissonante con la visione sistemica e la promozione dell’integrazione tra livelli e contesti assistenziali enfatizzata dal PNC: “la sfida alla cronicità è una sfida di sistema, che deve andare oltre i limiti delle diverse istituzioni, superare i confini tra servizi sanitari e sociali, promuovere l’integrazione tra differenti professionalità”. Le tendenze al trasferimento della PiC al livello specialistico sono state vanificate prima di tutto dagli specialisti ospedalieri, che in teoria dovevano fare concorrenza al MMG, ma che alla prova dei fatti hanno arruolato un risicato 5% del 10% totale scarso di pazienti cronici che hanno accettato la proposta di PiC.
Ospedale di Comunità e rete territoriale
Venendo agli OdC, c’è un rischio di fondo nell’avere usato nella loro definizione la parola “Ospedale”, scelta che rischia di portare la politica a spingere verso una caratterizzazione ospedaliera di questo tipo di struttura. L’Ospedale di Comunità non è stato “inventato” dal PNRR e regolamentato dal DM 77, ma ha già una lunga storia. Ne parlava già, infatti, il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008. L’OdC non è un piccolo ospedale ancor più piccolo, tipo “piccolissimo ospedale”, ma qualcosa di diverso. E non è nemmeno un pezzo a bassa intensità assistenziale di un ospedale per acuti. E’ una struttura a gestione territoriale in cui si fa una attività di ricovero non ospedaliero senza la continuità della presenza del personale medico di reparto nelle 24 ore, una assistenza rivolta a pazienti “intermedi” tra quelli degli ospedali veri e quelli delle strutture residenziali o in assistenza domiciliare provenienti in dimissione dai reparti per acuti o dal territorio. La sua collocazione ideale è in un’unica infrastruttura accanto a e in sinergia con gli altri servizi della rete sociosanitaria territoriale.
Per quanto riguarda gli OdC nella Regione Lombardia, qui si registra la tendenza ad inserire in modo diffuso gli OdC all’interno degli ospedali per acuti. Nel capitolo del Rapporto Oasi 2022 del Cergas dell’Università Bocconi si analizza la situazione della AST di Mantova – ma il riferimento vale anche per gli ospedali di Cremona e di Brescia – e si afferma che “dal punto di vista delle dotazioni tecnologiche, la maggior parte degli OdC della provincia di Mantova sono/saranno ubicati dentro ospedali per acuti pertanto potranno disporre delle tecnologie presenti”. Nelle intenzioni il DM 77 prevede invece di collocare gli OdC soprattutto sul territorio in coerenza con le indicazioni del metaprogetto dell’OdC elaborato da Agenas: “l’inserimento di un OdC integrato con la CdC e COT in un edificio esistente può risultare la soluzione più ottimale per generare rigenerazione urbana, ridurre l’impatto sull’ambiente e permettere la valorizzazione patrimonio costruito esistente“. La tendenza della Regione Lombardia a collocare numerosi OdC in un ospedale per acuti rischia di spostare il baricentro della sua attività verso le esigenze organizzative dell’ospedale e di ridimensionare il suo rapporto con il territorio, le CdC e la rete dei professionisti dell’Assistenza Primaria. E’ probabile, e in alcuni casi inevitabile, che un OdC inserito nella struttura ospedaliera venga quasi esclusivamente utilizzato per pazienti dimessi dai reparti per acuti dai reparti di area medica in modo da alleviare il boarding dei ricoverati in OBI, riducendo così al massimo le ammissioni dal territorio. Questa scelta rischia di disincentivare la integrazione e la continuità con il territorio e di limitare un recupero della gestione clinica da parte dei MMG più votati a tale dimensione, in quanto affidata ai medici dipendenti del SSN e non ai convenzionati come indica il DM77. Per giunta la recente apertura della Regione Lombardia alla gestione degli OdC da parte dei privati va nella stessa direzione, ricorrendo ad una esternalizzazione gestionale che sottrarre queste strutture ad una governance pubblica di sistema della cronicità.
Nelle Marche il Piano Socio Sanitario approvato di recente addirittura stravolge il DM 77 inventando per alcuni OdC di una sorta di loro versione “di area disagiata”. Si tratta di tre OdC di un territorio molto concentrato ed elettoralmente molto interessante per la Giunta di centrodestra. Non c’è nessuna analisi a conforto di questa scelta, né alcun supporto normativo. E’ letteralmente una invenzione giustificata dall’essere l’area geografica che ne “benefica” contraddistinta da una situazione climatica caratterizzata da abbondanti nevicate e da venti molto intensi (motivazione che conoscendo la geografia delle Marche farebbe ridere, ma meglio non riderne per la sua gravità). Ma quali sono i vantaggi legati a questo riconoscimento? Il primo e più importante è che viene previsto un potenziamento della rete di Emergenza-Urgenza presso queste tre strutture. Il Piano prevede per loro una sorta di quasi-Pronto Soccorso con personale medico dedicato con adeguata qualifica fornito dal Dipartimento di Emergenza e Accettazione di riferimento.
Le tre strutture beneficiarie del riconoscimento (Cagli, Fossombrone e Sassocorvaro) si avvantaggiano poi del riconoscimento di status di Ospedale di Comunità “di area disagiata” per un altro motivo: viene loro concesso di avere almeno sulla carta una attività di ricovero nell’area della post-acuzie (lungodegenza e/o riabilitazione) che non dovrebbero avere perché vorrebbe dire avere la guardia medica interna specialistica nelle 24 ore, non prevista per gli OdC. In coerenza con questa scelta dentro i tre ospedali in questione è previsto un poliambulatorio specialistico con le seguenti discipline: Patologia vascolare, Ematologia, Endocrinologia, Geriatria, Ginecologia, Medicina interna, Nefrologia, Neurologia, Oculistica, Oncologia, Ortopedia, Otorinolaringoiatria, Flebologia, Dermatologia, Urologia, Gastroenterologia, Psichiatria e Psicologia Clinica, più una attività immunotrasfusionale, un Ambulatorio Chirurgico (Endoscopia digestiva di I livello, chirurgia breve, ecc.) e un Centro Ambulatoriale di Terapia del Dolore. Siamo in presenza di un evidente stravolgimento della lettera e dello spirito sia del DM 77 che del PNRR.
Conclusioni
Queste scelte di due Regioni così diverse tra loro, ma accomunate dall’essere molto rappresentative sul piano politico dell’attuale governo centrale, ci fanno suggerire l’importanza di includere nel monitoraggio della applicazione sul campo del DM 77 affidato all’Agenas (vedi il Report sul Monitoraggio Fase 2 concernente l’applicazione del DM 77) oltre agli aspetti strutturali anche quelli di processo relativi ai modelli organizzativi adottati, per evitare un “patologico” disallineamento di alcune Regioni e una disomogeneità inter-regionale inaccettabile. Per quanto riguarda le funzioni degli OdC la diversificazione delle implementazioni locali rispetto al DM77 rischia già di eccedere la “fisiologia”. Per non ritrovarsi poi a piangere sulla ennesima occasione persa col PNRR e il DM 77, così come sono state perse le occasioni legate alla mancata applicazione del DM 70, del Piano Nazionale della Cronicità e di tutti gli infiniti atti di indirizzo rimasti nella maggioranza delle realtà regionali recepiti nella forma, ma sostanzialmente inapplicati nella sostanza. Se dovesse prevalere, come la chiamano Giovanni Bertin e Marta Pantalone, la “colonizzazione del territorio con la stessa cultura di governo utilizzata nella gestione dei sistemi ospedalieri”, l’auspicata integrazione ospedale-territorio, già di per sé problematica, diverrebbe ancor più ardua.
fonte: https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=119526