I quotidiani locali (e non) e «Superando.it» [“Cieca? Lei non è obbligata ad andare al cinema…”, N.d.R.] hanno riportato la notizia che il 3 dicembre scorso una persona con disabilità visiva, accompagnata dal proprio cane guida, non ha avuto accesso all’unico cinema multisala di Treviso, città candidata a Capitale della Cultura 2026.
Non conosco precisamente la dinamica di ciò che è accaduto, ma, per sgombrare il campo da equivoci, quel cinema è un baluardo locale, con riconoscimenti a livello nazionale, della cultura cinematografica e della cultura in generale per tutta la comunità, con proiezioni ed eventi anche sul tema della disabilità e dell’inclusione in generale delle “persone fragili”. Un fatto simile era accaduto qualche anno fa in un cinema di Milano. E in entrambi i casi ci si è comportati come se fosse un caso “imprevisto”.
Allora è necessario chiedersi: quante persone con disabilità sensoriale, fisica, intellettiva vediamo quando andiamo al cinema, a teatro, ad un concerto, ad un museo, ad un festival, ad una mostra d’arte, ad un convegno? Il problema, più ampiamente e concretamente, è, nel nostro Paese, dell’empatia di una comunità che spesso è “distratta”, fino a quando non si è toccati da vicino, di fronte alle difficoltà, alle esigenze sociali, e quindi ai diritti, di una persona con disabilità per qualsiasi normale attività come:
– recarsi ad un cinema o ad un teatro (un museo, una biblioteca, un festival ecc.…), per le scarse possibilità di raggiungerlo autonomamente con auto (al massimo un solo posto auto e spesso non vicino alla destinazione e occupato da chi non ne ha titolo) o con bus (a volte inaccessibili) o per strada (percorsi inesistenti o irti di ostacoli), di entrarvi autonomamente (ingressi inadeguati), di goderne autonomamente (sprovvisti di audiodescrizione/sottotitoli e altri ausili), di andare in bagno (se non con gimcane intollerabili) e così via;
– frequentare una scuola di cinema, o di musica o di teatro… senza parlare di avere un lavoro, delle relazioni sociali, affettive ecc…
Anzi, pur essendoci una legislazione molto avanzata, a partire dalla nostra Costituzione e poi leggi ordinarie (nel caso specifico del cane-guida la Legge 37 del 1974 integrata dalla Legge 60 del 2006) e infine la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata nel nostro ordinamento con la Legge 18 del 3 marzo 2009), si verificano episodi discriminatori verso chi frequentemente è abbandonato a se stesso (o da solo con la propria famiglia), già da bambino, senza un progetto di vita (come sancirebbe la nostra normativa) dopo il periodo scolastico, spesso senza lavoro per una vita autonoma, mentre invece una maggiore attenzione a determinate difficoltà esistenziali, che possono riguardare chiunque e in qualunque momento, potrebbe essere l’occasione per generare una società molto più innovativa anche partendo da un “imprevisto”, come il “pomeriggio di un giorno da cani”, parafrasando un famoso film, di una cliente cieca lasciata fuori da un cinema a causa del suo cane guida.
E come ci ricordava Andrea Canevaro, nella sua formidabile e attualissima lectio magistralis in occasione dell’unico Premio Barbiana per l’Educazione del 2010, «Noi… abbiamo bisogno di imparare dagli imprevisti, da coloro che la nostra previsione di ordine dell’organizzazione scolastica o sociale non aveva contemplato. Togliersi di torno gli imprevisti vuol dire rinunciare alle innovazioni. E gli economisti ci dicono che questa rinuncia significa declino».
Un esempio semplice e locale di innovazione: l’Amministrazione Comunale di Treviso ha attuato un lungo percorso accessibile per le persone con disabilità sul parco delle antiche mura cittadine, anche grazie alle riflessioni pervenute dal Tavolo per la Disabilità del Comune, di cui mi onoro di far parte, all’Assessorato competente, e altri percorsi sicuramente arriveranno anche grazie alla prova esperienziale in carrozzina che rappresentanti della stessa hanno fatto tempo addietro su invito del disability manager [Rodolfo Dalla Mora, N.d.R.], persona con disabilità motoria.
Chi fruisce (provare per credere) di quel percorso sulle mura, oltre alle persone con disabilità? Anziani, bambini, famiglie con passeggini ecc…
È un bell’esempio di mancata innovazione (anche se il caso era previsto): tempo fa, durante una serata di un festival, una famosa scrittrice italiana, persona con disabilità fisica, è stata invitata a presentare il suo ultimo libro, e non essendo in grado di accedere autonomamente al palco sopraelevato, quindi inaccessibile, è stata sollevata con la sua carrozzina per salire e per scendere. Eppure sarebbe bastata da parte degli organizzatori, pur senza conoscere la normativa, un po’ di empatia, o meglio un po’ di simpatia (intesa come sympateia cioè come capacità di essere coinvolti dalla sofferenza di un altro… e cito Raffaele La Capria per rimanere in tema di letteratura), per pensare un’altra modalità, definibile in linguaggio giuridico come “accomodamento ragionevole”, ad esempio prevedere un luogo accessibile o una pedana, evitando il sollevamento per quella che è l’Autrice di uno dei più intensi libri sulla condizione di una persona con disabilità, per altro presentato in una precedente edizione del medesimo festival. E magari in futuro, sempre simpaticamente, si consentirebbe, in uno spazio accessibile, anche una maggiore partecipazione di pubblico tra le persone con disabilità fisica… e ancora di più tra quelle con disabilità sensoriale, prevedendo un interprete LIS, audiodescrizione, sottotitoli ecc., nei cinema, nei teatri, nei festival, nei convegni, in ogni ritrovo di cultura, e a vantaggio di tutti.
Ovviamente sono solo esempi, ma di fatti del genere ne accadono ovunque nel Paese.
Che fare dunque di fronte a fatti come questi, oltre a ricordarci sempre che l’accessibilità, anche nei luoghi di cultura, è per tutti perché siamo tutti “temporaneamente abili” come ricordo sempre nelle mie parole e letture da “Suggenitore”?
«Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio», recita un proverbio africano, ma il problema è anche educare il villaggio (adulto) e appare necessario introdurre sempre di più regole e formazioni inclusive nelle Istituzioni statali, regionali, comunali, nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni professionali, di categoria, nel rilascio delle licenze, delle autorizzazioni ecc… ovunque si abbia a che fare con le persone e, strategicamente, pensare al bambino, educandolo a scuola con progetti inclusivi, in fretta, come per tutti i temi (violenza di genere, bullismo…): schola magistra vitae.
Ad esempio, nell’Istituto Superiore Besta di Treviso, da qualche anno è stato introdotto il progetto Tutor Amicale [se ne legga già anche su queste pagine, N.d.R.], ideato nella sua formula originaria dal pedagogista Sergio Neri e attuato da tempo in Emilia Romagna, che prevede il coinvolgimento attivo di studenti e studentesse senza (ma anche con) disabilità che, opportunamente preparati, si affiancano singolarmente o in gruppo ad alunni/e con disabilità (ma anche senza), che spesso soffrono di dinamiche di fragilità e/o isolamento relazionale (dalla scuola e spesso per il resto della vita) come ponti per una maggiore partecipazione sociale.
Questo progetto a Treviso – per la prima volta nel Nordest e prossimamente in altre località – è stato introdotto grazie ad un gruppo di lavoro formato da chi scrive, con rappresentanti dello stesso Istituto Besta, dell’Università di Padova e con il fondamentale supporto dell’Amministrazione Comunale e si confida che venga applicato in tutti gli Istituti Superiori della Provincia e della Regione Veneto, grazie all’ausilio dell’Ufficio Scolastico e delle Amministrazioni Comunali competenti, perché promuove anche un necessario atteggiamento culturale positivo nei comportamenti dei giovani “normodotati”, i quali avranno così la possibilità di conoscere in età adolescenziale altre situazioni di difficoltà esistenziali spesso ignorate, se non discriminate, attivando d’altra parte un benefico processo inclusivo in chi organizza e attua il progetto.
Progetti come questi producono immediatamente cultura del cambiamento affinché nel prossimo futuro si consideri assolutamente normale che un essere umano con disabilità, alla pari di tutti gli altri, un pomeriggio decida di andare autonomamente con il proprio cane guida al cinema o a teatro o ad un festival, trovando non solo persone di un “villaggio” accogliente (formate e/o educate da giovani), ma anche i necessari ausili per poterne fruire, in ogni città che voglia diventare Capitale della Cultura… inclusiva.