“È una pericolosa illusione pensare che il conflitto possa essere gestito o contenuto in eterno. Solo negoziati costruttivi tra le parti, in buona fede, con il sostegno della comunità internazionale e rispettando le risoluzioni delle Nazioni Unite e i parametri concordati da tempo, porteranno a una soluzione giusta e duratura, con Gerusalemme capitale di entrambi gli Stati. Sono necessarie, innanzitutto, leadership e volontà politica.” António Guterres, Segretario Generale dell’Onu
“Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica fondamentale.” Papa Francesco, “Fratelli Tutti”
In un momento di grande dolore e angoscia, mercoledì 29 novembre ricorre la “Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese” promossa dell’Onu.
Il 29 novembre è stato scelto poiché in quel giorno del 1947, l’Assemblea Generale dell’Onu istituiva nella terra di Palestina uno “Stato ebraico” e uno “Stato arabo”, assegnando alla città di Gerusalemme uno speciale status internazionale gestito dalle Nazioni Unite.
Questa Giornata ci ricorda che dei due Stati previsti nella Risoluzione 181 (II) del 1947, conosciuta come Partition Resolution, finora è stato creato solo lo Stato di Israele mentre il popolo palestinese continua ad essere sottoposto ad una violenta occupazione militare.
Figli della stessa madre
“Si può dire che lo stato di Palestina è figlio delle Nazioni Unite, un figlio che manifesta quella riconoscenza che lo stato di Israele, anch’esso figlio della stessa madre, persiste nel negarle” (Antonio Papisca). Israele e Palestina sono stati fratelli. Anzi, sono fratelli gemelli, perché entrambi nascono il 29 novembre 1947. Entrambi sono figli della stessa madre, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, fondata per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”. Entrambi hanno il diritto di esistere, con la stessa sicurezza, la stessa dignità e gli stessi diritti.
I diritti del popolo palestinese sono inalienabili
In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, mentre rinnoviamo il nostro appello per fermare le stragi e fare pace a Gerusalemme, vogliamo ricordare a tutti che la “Questione Palestinese” è innanzitutto una questione di diritti umani e che gli inalienabili diritti del popolo palestinese sono sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani e da numerose risoluzioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Lo facciamo forti del mandato che ci viene assegnato dalla “Magna Charta dei Difensori dei diritti umani” ovvero dall’articolo 1 della Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere le libertà fondamentali e i diritti umani universalmente riconosciuti” (1998): “Tutti hanno il diritto, individualmente ed in associazione con altri, di promuovere e lottare per la protezione e la realizzazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali a livello nazionale ed internazionale”.
Il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese
La Risoluzione 3236 del 1974 dell’Assemblea Generale indica espressamente, tra gli inalienabili diritti del popolo palestinese, il diritto all’autodeterminazione.
Il diritto all’autodeterminazione dei popoli è iscritto tra i fini delle Nazioni Unite enunciato nell’art.1 dello Statuto dell’Onu: “Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, e prendere altre misure atte a rafforzare la pace universale”.
Questo diritto umano fondamentale è stato successivamente riconosciuto dalle più importanti Convenzioni giuridiche internazionali sui diritti umani.
L’identico articolo 1 dei due Patti internazionali del 1966 rispettivamente sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, statuisce: “1. Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale. (…) 3. Gli Stati Parti del presente Patto debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite”.
Su questo punto si è pronunciata anche la Corte Internazionale di Giustizia, organo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite preposto a risolvere pacificamente i conflitti. Nel parere sul “muro israeliano” del 9 luglio 2004, la Corte al paragrafo 118 afferma che “per quanto riguarda il principio di autodeterminazione dei popoli, la Corte osserva che l’esistenza del “popolo palestinese” non può essere oggetto di discussione”. Il popolo palestinese esiste ed esisteva prima dell’occupazione inglese e prima della partizione del 1948.
Possiamo dunque dire che “autodeterminazione” è sinonimo di libertà e democrazia poiché significa il potere dei popoli, di ciascun popolo, di scegliere liberamente sia la forma politico-istituzionale con cui collocarsi nel sistema delle relazioni internazionali (stato indipendente, stato federale o confederale, ecc.) sia il regime politico ed economico all’interno del proprio stato.
Ci troviamo in presenza di una importante conquista di civiltà giuridica: l’autodeterminazione dei popoli da “principio” politico diventa un “diritto fondamentale” espressamente riconosciuto dalla legge universale (scritta) dei diritti umani.
La lunga strada verso il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese
Il 2 giugno 1964 nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Movimento di Liberazione Nazionale che rappresenta il popolo palestinese e che lotta per la sua autodeterminazione. Ma solo nel 1975 l’Assemblea Generale dell’Onu, con Risoluzione 3237, attribuisce all’OLP lo status di “osservatore”. Uno status che consente all’OLP di partecipare ai dibattiti in seno all’Assemblea generale e al Consiglio di Sicurezza dell’Onu relativi alle questioni sull’autodeterminazione del popolo palestinese e sul processo di pace in Medio Oriente.
La Palestina dovrà attendere quasi quarant’anni per essere ammessa all’ONU in qualità di “stato osservatore non membro” con Risoluzione 67/19 dell’Assemblea generale del 29 novembre 2012. La portata di questo atto è di altissimo rilievo sia giuridico sia politico: la Palestina è riconosciuta, a tutti gli effetti, quale stato con i diritti e le prerogative proprie di uno stato “indipendente, sovrano, democratico, contiguo, autosufficiente”, come recita appunto la Risoluzione.
Con il compito di monitorare i progressi compiuti nella realizzazione dei diritti inalienabili all’autodeterminazione senza interferenze esterne e di tornare nelle proprie case e proprietà da cui i palestinesi erano stati sfollati, l’Assemblea generale, con la Risoluzione 3376, istituisce nel 1975 il Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP) un organo intergovernativo, composto da 25 stati.
In seguito all’istituzione del Comitato, l’Assemblea generale ha riconosciuto la necessità di creare un’opinione pubblica informata in tutto il mondo a sostegno del conseguimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese. A questo fine ha istituito un’Unità speciale sui diritti dei palestinesi presso il Segretariato delle Nazioni Unite per assistere il Comitato nel suo lavoro (Risoluzione 32/40 B del 2 dicembre 1977). Nel 1979 tale Unità è trasformata nella Divisione per i Diritti dei Palestinesi all’interno del Dipartimento degli Affari politici e della costruzione della pace (Risoluzione 3465 D).
Un organo politico, a raggio d’azione globale, che si attiva per monitorare le violazioni dei diritti fondamentali nei confronti del popolo palestinese è la Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite che, a partire dal 2006, viene sostituita dal Consiglio Diritti Umani, quale organo sussidiario dell’Assemblea generale.
A partire dal 1993, la Commissione e poi il Consiglio Diritti Umani ha nominato sette “Relatori speciali sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967”. Nel Rapporto 2022 della Relatrice speciale in carica, Francesca Albanese, si afferma che:
“Per oltre 56 anni, l’occupazione militare israeliana ha impedito la realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, violando ogni componente di tale diritto e perseguendo intenzionalmente la de-palestinizzazione del territorio occupato. (…) L’occupazione israeliana viola la sovranità territoriale palestinese sequestrando, annettendo, frammentando e trasferendo la popolazione civile nel territorio occupato. L’occupazione mette in pericolo l’esistenza culturale del popolo palestinese cancellando o appropriandosi dei simboli che esprimono l’identità palestinese e viola la capacità dei palestinesi di organizzarsi come popolo, libero dal dominio e dal controllo alieno, reprimendo l’attività politica, la difesa e l’attivismo dei palestinesi”.
Il Rapporto stabilisce altresì che ”l’occupazione è illegale ed è diventata uno strumento per attuare discriminazione razziale, conquista e annessione e trasformarsi in un regime di apartheid. L’apartheid è una conseguenza naturale di questo sistema”.
Nel formulare queste pesanti accuse, la Relatrice speciale fa riferimento alla definizione di crimine di apartheid contenuta nella Convenzione contro l’apartheid (1965) e nello Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale (1998). In questi accordi giuridici internazionali una politica di apartheid si manifesta quando sono compresenti tre fattori: l’intento di mantenere un sistema di dominio di un gruppo razziale su un altro, l’oppressione sistematica da parte di un gruppo razziale rispetto a un altro; uno o più atti disumani compiuti su base diffusa o sistematica.
Tra gli atti disumani identificati nella Convenzione o nello Statuto di Roma vi sono i seguenti: trasferimento forzato, espropriazione della proprietà fondiaria, creazione di riserve e ghetti separati, negazione del diritto di partire e di tornare nel proprio paese e del diritto a una nazionalità.
Nel suo secondo Rapporto, presentato all’Assemblea generale il 24 ottobre 2023, la Relatrice speciale afferma che:
“Mentre consolidava la sua presenza nei Territori Palestinesi Occupati, Israele ha fatto un uso versatile della forza contro la popolazione sotto occupazione, offuscando la distinzione legale tra le operazioni di applicazione della legge e la conduzione delle ostilità. Oltre alla macro-violenza della forza letale e delle punizioni collettive contro i palestinesi, i palestinesi sopportano anche atti persistenti di micro-violenza, tra cui le incursioni militari e la violenza dei coloni, la distruzione e il saccheggio di proprietà e risorse, l’umiliazione, l’arresto e la detenzione a prescindere dalla loro età. I bambini palestinesi vivono in spazi segregati e in comunità colpite dall’ostilità. Il sostentamento delle loro famiglie, l’accesso al lavoro, l’assistenza sanitaria, le opportunità di svago, le prospettive future e la mobilità sono tutte controllate da Israele. I bambini palestinesi sono consapevoli delle sfide che devono affrontare “in quanto palestinesi”. Sentendosi alienati nella loro terra, i bambini si pongono delle domande: “Perché è così? Siamo meno umani?” “Siamo meno degni?”.
Sia Israele che la Palestina hanno ratificato la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza rispettivamente nel 1991 e nel 2005. Israele ha ratificato anche il Protocollo facoltativo sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati. Gli Stati parte alla Convenzione devono rispettare, proteggere e soddisfare i diritti dei bambini all’interno della loro giurisdizione.
Gli obblighi dello stato di Israele (derivanti dal diritto internazionale generale, dal diritto internazionale umanitario, dal diritto internazionale dei diritti umani, dal diritto penale internazionale)
Le Risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno anche definito quali sono, ai sensi del diritto internazionale generale, del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani, gli obblighi dello stato di Israele: ritirarsi dai territori palestinesi occupati in quanto la conquista dei territori con la forza è illegale, rispettare i confini territoriali del 1967, riconoscere ai rifugiati palestinesi il diritto al rientro.
A questo proposito, il Consiglio di sicurezza, con risoluzione 242 (1967) del 22 novembre 1967, ha affermato che “la realizzazione dei principi della Carta delle Nazioni Unite esige l’instaurazione di una pace giusta e duratura in Medio Oriente che dovrebbe comprendere l’applicazione di due principi fondamentali, ovvero “il ritiro delle forze armate israeliane dai territori palestinesi occupati nel recente conflitto e la cessazione di tutte le manifestazioni di belligeranza con il riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato della regione, compreso lo stato di Palestina, e dei loro diritti di vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute al riparo di minacce o atti di forza”.
Un ulteriore obbligo giuridico nei confronti di Israele è quello di sospendere la costruzione di insediamenti nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est, insediamenti che si configurano come atti di annessione territoriale e che costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e di una pace.
Su questo punto interviene anche il Consiglio di Sicurezza che, con risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, chiede ad Israele di porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, e ribadisce che non riconoscerà alcuna modifica dei confini del 1967. Nella Risoluzione si afferma tra l’altro che: “Le misure del governo israeliano intese ad alterare la composizione demografica, le caratteristiche e lo status dei territori palestinesi occupati dal 1967, compresa Gerusalemme est, in particolare la costruzione e l’espansione di colonie, il trasferimento di coloni israeliani, la confisca di terre, la demolizione di case e lo spostamento di civili palestinesi, sono tutte misure che violano il diritto internazionale umanitario, il diritto internazionale dei diritti umani e le pertinenti risoluzioni dell’ONU”.
In quanto potenza occupante, Israele ha l’obbligo di rispettare la Quarta Convenzione di Ginevra (1949) e assicurare la protezione di tutti i civili, bambini, donne, ammalati, anziani.
Vi è poi l’obbligo per Israele di demolire il muro costruito all’interno dei territori occupati in quanto contrario al diritto internazionale come stabilito nel citato parere sul “muro israeliano” della Corte internazionale di giustizia del 2004 che nel dispositivo afferma perentoriamente che:
“l’edificazione del muro che Israele, potenza occupante, sta costruendo nel territorio palestinese occupato, ivi compreso all’interno e sui confini di Gerusalemme Est, e il regime che lo accompagna, sono contrari al diritto internazionale;
Israele è obbligato a porre termine alle violazioni del diritto internazionale di cui è l’autore; è tenuto a cessare immediatamente i lavori di costruzione del muro che sta costruendo sul territorio palestinese occupato, ivi compreso all’interno e sui confini di Gerusalemme Est, di smantellare immediatamente l’opera situata in questo territorio e di abrogare immediatamente o privare immediatamente di effetti l’insieme degli atti legislativi e regolamentari che vi si riferiscono, in conformità al paragrafo 151 del presente parere;
Israele è obbligato a riparare tutti i danni causati con la costruzione del muro nel territorio palestinese occupato, ivi compreso all’interno e sui confini di Gerusalemme Est;
Tutti gli Stati sono obbligati a non riconoscere la situazione illecita derivante dalla costruzione del muro e di non prestare aiuto o assistenza al mantenimento della situazione creata da questa costruzione; tutti gli Stati parti alla quarta Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra, del 12 agosto 1949, sono inoltre obbligati, nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, a far rispettare da Israele il diritto internazionale umanitario incorporato in questa convenzione”.
Concludendo queste riflessioni, vogliamo ricordare quanto è stato scritto solennemente nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani:
“Il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità”
“L’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo”
“E’ indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione”.
Senza diritti umani non c’è pace
“La nonviolenza non è soltanto rifiuto della violenza attuale, ma è diffidenza contro il risultato ingiusto di una violenza passata.” Aldo Capitini
Marco Mascia, Centro Diritti Umani Antonio Papisca, Università di Padova
Flavio Lotti, Fondazione PerugiAssisi per la Cultura della Pace
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