La Casa della carità nasce per la felice intuizione del suo ispiratore, il Cardinale Carlo Maria Martini, con l’intento di dare una risposta integrata a molti bisogni di salute della città. La nuova fase che si apre per la Casa della carità riguarda più decisamente l’incrocio teorico e pratico con il sistema sanitario pubblico nell’ambito di un sogno condiviso.
Il contesto
La Casa della carità a Milano è un luogo di accoglienza che ospita fino a 100 persone, sorta nel 2004 con l’intento di dare una risposta integrata a molti bisogni di salute della città. È punto di riferimento costante per centinaia di persone che usufruiscono di servizi diurni (mensa, docce, guardaroba, interventi clinici, ritiro posta, consulenza legale, laboratori artistici), comprende una rete di appartamenti su tutto il territorio cittadino ed è sede di equipe di lavoro che dalla Casa partono per realizzare progetti di cura e inclusione in varie parti della città. La Casa risponde ai bisogni dell’intera città di Milano (le baraccopoli, le condizioni homeless, le negazioni dei diritti di salute) ma anche del quartiere nel quale è situata (custodi sociali, progetti con le scuole, anziani soli). Vi lavorano in tutto circa 100 operatori con altrettanti volontari stabili.
La Casa della carità nasce per la felice intuizione del suo ispiratore, il Cardinale Carlo Maria Martini che, lasciando Milano dopo 22 anni, vide in questa Casa la sua “eredità”. Si tratta di una realtà complessa nella struttura (ha un c.d.a. formato sia da membri nominati dal comune che dalla diocesi), nella composizione (professionalità diverse in ambito pedagogico, clinico, giuridico, sociale), nei processi (viene posta come condizione necessaria l’intreccio continuo tra accoglienza e cultura). Da subito sorgono corsi di livello universitario, un centro studi, una biblioteca di quartiere, tirocini e percorsi formativi. L’ attenzione alla salute attraversa tutte le attività sociali e culturali della Casa della Carità.
Il fiume dell’ospitalità e il governare confusioni urbane
Tradurre la metafora della “sentinella dentro la città”[1] nella pratica della cura ha significato rinunciare alla scelta di un target specifico. Non senza dibattito interno, è prevalsa la linea di lasciarsi determinare dai bisogni della città per decidere chi ospitare, per quanto tempo, con quale investimento di risorse. Si apriva la Casa alla cura senza sottrarsi alla complessità (“il fiume dell’ospitalità”[2]) ma con la convinzione di dover comunque procedere con studio, rigore, strategie scelte (“governare confusioni urbane”[3]). Nei primi anni la Casa poteva mobilitarsi in poche ore e allestire un’accoglienza con 100 brande in auditorium se durante la notte era avvenuto uno sgombero di famiglie in una baraccopoli della periferia o in seguito all’arrivo in Stazione Centrale a Milano di centinaia di profughi siriani; allora la cura si organizzava come in un ospedale da campo. Analogamente si poteva rispondere ad un singolo ospite particolarmente problematico con un investimento cospicuo di attenzioni e cure incentrate sull’accompagnamento nella rete dei servizi. La chiamata emergenziale attivava la risposta dello “stare nel mezzo”[4], stabilendo relazioni, facendo una ricognizione dei bisogni, offrendo un primo set di risposte sulle necessità di base per dedicarsi poi un tempo di approfondimento e di individuazione dei passi da fare in modo che le istituzioni pubbliche fossero sempre coinvolte e che gli interessati fossero protagonisti della ricerca di soluzioni. Anche nell’acuzie dell’emergenza, non è mai venuto meno un intervento di cura multidisciplinare basato sulle competenze specifiche e sul riconoscimento dei diritti fondamentali. Con questo modo di procedere, ad esempio, con il Progetto Diogene ormai centinaia di persone homeless con gravi problemi psichici non sono più sulla strada ma in comunità terapeutiche o in appartamenti condivisi. Con questo approccio, in cinque anni di lavoro assiduo in via Triboniano a Milano, si è smantellato un assembramento di 600 persone che risultava posto invivibile per chi vi abitava dentro e per chi vi abitava vicino.
La sofferenza urbana e le strade nuove e sostenibili per la cura
A due anni dalla fondazione della Casa, nasce il Centro Studi Souq[5] che permette di concentrare l’attenzione su alcune domande più urgenti a proposito di salute e vulnerabilità. Fa scuola il paradigma della “sofferenza urbana”[6], ovvero della sofferenza individuale che le categorie diagnostiche e le casistiche sociali non potrebbero classificare. Si mette a tema l’identità del soggetto che trova benessere se è riconosciuto nella sua molteplicità e non nell’etichetta del disagio che spesso diventa barriera all’integrazione e alla cura. Si mettono in discussione le polarizzazioni che bloccano la creatività: fisico/mentale, pubblico/privato, sociale/sanitario, formale/informale, individuale/collettivo. Scandagliando le pratiche e scatenando il pensiero degli operatori, si producono pensieri e domande che fanno superare empasse ma che “complicano” la riflessione, aggiungendo domande al bisogno di studiare i fenomeni. Coordinati da ricercatori dell’Istituto Mario Negri, si individuano le domande dense che emergono dall’operare con la vulnerabilità urbana. Si ricercano i motivi per cui le persone fragili, pur avendo diritto di cura presso i diversi servizi, faticano terribilmente ad accedervi e a tal proposito la raccolta di dati si estende al pronto soccorso di un ospedale milanese[7].
Una nuova deistituzionalizzazione
Essere coloro che non si tirano indietro ogni volta che la città chiama con le sue domande contradditorie fa sì che ci si trovi a curare non solo il bisogno di salute mentale, ma sempre più frequentemente le situazioni estreme che riguardano la condizione fisica: da una parte le “ferite invisibili” di chi porta il racconto e le cicatrici delle torture subite durante il viaggio migratorio e la detenzione nelle carceri libiche, dall’altra la domanda di chi presenta gravi patologie mediche ma non ha casa o un care-giver che lo assista durante percorsi impegnativi quali i cicli di chemioterapia, il trapianto di organo o addirittura le fasi terminali della vita e le cure palliative. È stato fatto un investimento specifico su personale sanitario, assumendo medici ed infermieri competenti, che hanno imparato a lavorare in rete con altre professionalità, senza modelli gerarchici obsoleti. Contemporaneamente si è cercato di rendere modello riproducibile e basato sull’evidenza un approccio complesso alla cura che inverte l’asse direzionale persona-servizio. Questa fase coincide con riflessioni sulla sostenibilità, sulla certificazione di qualità, sul miglioramento dei processi organizzativi e comunicativi, tentando di mettere a sistema certe intuizioni benefiche risultate efficaci a posteriori.
La cura in Casa della carità acquisisce alcuni connotati irrinunciabili:
- la contiguità spaziale nell’offerta di risposte di tipo diverso per i più vulnerabili, evitando lo sfinente iter burocratico per i diversi servizi iperspecialistici della città;
- la competenza trasversale degli operatori, ai quali si offre una formazione ad hoc: medici che conoscano la normativa, giuristi che sappiano trattare con persone fragili, assistenti sociali esperti nelle dinamiche transculturali, educatori attenti alle politiche;
- la predisposizione continua a svolgere un ruolo-ponte con i soggetti della rete istituzionale, non sostituendoci al sistema pubblico e anzi facendo advocacy;
- la personalizzazione dei progetti e dei percorsi: a nessuno si applica un tempo standard di permanenza o una sequenza di risposte già decisa;
- la tempestività della risposta in emergenza, con una buona capacità di riorganizzarsi e trovare soluzioni creative;
- la flessibilità delle forme di accoglienza, passando da contesti residenziali più monitorati a forme abitative più autonomizzanti, pronti a cogliere le ricadute e le regressioni;
- l’offerta di un contesto familiare nel quale vivere per un periodo o sostare in alcune ore della giornata, condividendo relazioni basate su dignità e rispetto.
Tuttavia, procedendo nella riflessione, si viene messi in crisi da alcuni aspetti che ben si sintetizzano nella espressione provocatoria “deistituzionalizzare l’emergenza” proposta da Virginio Colmegna: il vero rischio è amare così tanto l’emergenza da non poterne fare a meno, inducendo un Terzo Settore a rinchiudersi in una nuova istituzione totale.
Per superare l’istituzione totale ci vuole un villaggio
Continuando a far risuonare la “sofferenza urbana” come chiave di lettura delle problematiche dei singoli e dei gruppi nell’impatto con la città, emerge l’esigenza di chiarire le condizioni della “felicità urbana”[8] ovvero riconoscere di cosa è fatto un benessere che solo in piccola percentuale dipende dalla sanità propriamente detta e che si associa alla scoperta che nessuno può esser molto felice tra gli infelici. I determinanti sociali di salute connotano il benessere anche dei più abbienti e fortunati, soprattutto se non si colmano i gap sempre più profondi tra ricchezza e povertà che la città genera[9]. Occuparsi della salute dei più poveri è un fatto che conviene a tutti e, sulla scorta di tale consapevolezza, l’attenzione si sposta sulla comunità, vera responsabile della cura di tutti i suoi cittadini. Già negli anni precedenti la pandemia, nasce in Casa della carità l’Associazione Prima la Comunità, che ha coinvolto dirigenti del pubblico e del privato di molte parti del Paese per riflettere sul profilo di una comunità responsabile e sulla medicina territoriale a partire da un ripensamento delle “case della salute”, normate dal 2007. Si conia l’espressione “casa della comunità”, ora di patrimonio nazionale. Ne scaturisce la risposta ad una manifestazione di interesse di ATS-Milano che genera il Progetto Arcturus, tentativo attualmente in corso di sperimentare una medicina comunitaria (con cure primarie, punto unico di accoglienza, centri diurni e domiciliarità) rivolto a tutti e non solo ai vulnerabili, mettendo tuttavia a frutto per questi ultimi delle competenze collaudate. Alla base c’è la riflessione su quali modalità garantiscono davvero il protagonismo assembleare nell’ambito di una regia pubblica e una governance partecipata, superando la vecchia dicotomia pubblico-privato a favore di una presenza di soggetti di natura diversa ad un unico tavolo di pensiero. Gli istituti di ricerca coinvolti, Bocconi di Milano e Università di Torino, sono al nostro fianco nell’interlocuzione con i decisori pubblici per documentare il processo in corso.
La nuova fase che si apre per Casa della carità riguarda più decisamente l’incrocio teorico e pratico con il sistema sanitario pubblico nell’ambito di un sogno condiviso, che valorizza tutte le potenzialità del villaggio comunitario, vero antidoto alle risposte parcellizzate e istituzionalizzanti di cui la cura ancora soffre nel nostro Paese.
Laura Arduini, Silvia Landra, Simona Sambati, Casa della Carità, Milano
Riferimenti bibliografici
[1] “Paure e speranze di una città”, discorso di Carlo Maria Martini al comune di Milano il 28 giugno 2002 in “Perché il sale non perda il sapore: discorsi, interventi, lettere e omelie 2002”, Bologna, Edb, 2003, pp. 453-464
[2] “Otto anni fa, la morte di Martini. Impegnati a generare il miglior futuro possibile”, di don Virginio Colmegna, in Avvenire, 1° settembre 2020.
[3] Cit. Benedetto Saraceno in Annuario SOUQ 2010, “Governare confusioni urbane”, a cura di Marzia Ravazzini e Benedetto Saraceno, Il Saggiatore 2010, Milano.
[4] Dalla lectio magistralis di don Virginio Colmegna dal titolo “La pedagogia dello stare nel mezzo”, in occasione della laurea honoris causa in Scienze Pedagogiche conferitagli nel giugno 2011 dalla facoltà di Scienze della formazione dell’Università Bicocca di Milano.
[5] www.casadellacarita.org/cultura/souq/
[6] Si veda il testo di Benedetto Saraceno, “Il paradigma della sofferenza urbana”, in Annuario SOUQ 2010, “Governare confusioni urbane”, a cura di Marzia Ravazzini e Benedetto Saraceno, Il Saggiatore 2010, Milano.
[7] “Domande e risposte di cura. Il ruolo della vulnerabilità nell’accesso alla cura: un vero discorso di salute” G.Jacchetti, M.Ravazzini, T.De Filippo, S.Guzzetti, P.Inghilleri e A.Vicenzi ,“Ricerca e Pratica”, settembre-ottobre 2016, vol. 32, n. 5, rivista dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”.
[8] Si veda l’Annuario SOUQ 2012, dal titolo “Le sfide della felicità urbana”, a cura di Benedetto Saraceno e Marzia Ravazzini, Il Saggiatore, Milano 2012.
[9] Vedi la lectio magistralis di sir Michael Marmot, dal titolo “Fair Society, healthy lives”, promossa dal Centro Studi SOUQ con le Università Statale e Bicocca di Milano, 1° dicembre 2015.