La povertà educativa, per quanto se ne sia parlato negli ultimi anni, è ancora un problema poco considerato in Italia. Eppure, dal punto di vista culturale e delle competenze basilari di lettura, comprensione, scrittura, calcolo e problem solving, il nostro paese è tra i più poveri d’Europa. La povertà educativa è, d’altra parte, un fenomeno più esteso della povertà economica e non si spiega soltanto con quest’ultima, né coinvolge solamente coloro che non hanno completato la scuola dell’obbligo.
La definizione a nostro avviso più efficace riposa su due indicatori che valgono sia presi singolarmente, sia sommati: 1) livello di istruzione inferiore alla scuola secondaria superiore e 2) bassi livelli nelle competenze di base. Naturalmente, chi ha un basso livello di istruzione è probabile anche che non possieda un livello accettabile nelle competenze di base; ma quest’ultime possono essere scarse anche tra chi è diplomato se, lasciata la scuola, si è smesso di allenarle nella vita quotidiana, nel lavoro e nel tempo libero. Ad esempio, lo sfruttamento delle competenze di base è associato al tipo di occupazione di una persona più che al suo livello di istruzione. E ancor più dei fattori relativi al tipo di occupazione, sono le attività e le pratiche culturali extralavorative che influiscono sul mantenimento delle competenze di base e sulla loro propedeuticità rispetto a competenze più complesse. Ai due indicatori sopra richiamati, si lega quindi una terza dimensione (meno osservabile ma non per questo meno rilevante) che rimanda alla povertà educativa in termini di mancanza di atteggiamenti positivi nei confronti dell’apprendimento e della cultura.
Perché la povertà educativa è una questione rilevante. Per comprendere nel dettaglio le ragioni per le quali l’Italia è tra i paesi europei in cui la povertà educativa è più diffusa, rimandiamo al nostro recente volume La povertà educativa in Italia. Dati, analisi, politiche (Carocci, 2023). Qui riportiamo alcuni dati allarmanti: al volgere del nuovo millennio, in base ai risultati della rilevazione internazionale Adult Literacy and Lifeskills, su 100 italiani tra i 14 e i 65 anni circa 5 non sapevano distinguere una lettera da un’altra (analfabetismo strumentale), 38 riuscivano a leggere e capire il senso delle cifre con difficoltà (analfabetismo funzionale o di ritorno), 33 riuscivano in queste operazioni, ma non erano in grado di andare oltre, ovvero, ad esempio, non erano in grado di leggere un testo che riguardava fatti di rilievo anche per la vita quotidiana. Soltanto il restante 24% utilizzava a pieno gli strumenti di lettura, scrittura e calcolo necessari per districarsi efficacemente nel mondo contemporaneo.
Nel 2013, dall’indagine realizzata nell’ambito del Programme for the International Assessment of Adult Competenciesè emerso che appena 1 adulto su 20 era competente al più alto livello di alfabetizzazione funzionale, mentre la competenza di quasi 3 adulti su 10 era inferiore o uguale al livello più basso, tanto in lettura e comprensione che in matematica. Costoro, nel migliore dei casi, erano in grado di leggere e comprendere testi brevi per individuare la singola informazione identica a ciò che nel test somministrato era richiesto dalla domanda, comprendere un ristretto vocabolario di base, determinare il significato semplice delle frasi del testo. Enormi difficoltà emergevano per compiti più complessi, come comprendere il significato di una frase con più incidentali o calcolare una percentuale a partire da frazioni. La quota di coloro che non superavano il secondo livello di competenze di lettura e comprensione sui cinque previsti in Italia era quasi il 70%. il peggiore risultato a livello europeo dove la media era del 44%. Si stima che negli ultimi 10 anni le cose siano andate peggiorando. Altrettanto preoccupante è il fatto che, tra i paesi avanzati, l’Italia è il fanalino di coda per la quota di chi non ha raggiunto il diploma di scuola secondaria superiore: si tratta di circa il 72% degli italiani tra i 65 e 75 anni e del 27,6% degli italiani tra i 35 e i 44 anni.
I processi di produzione e riproduzione della povertà educativa. Per effetto dei ritardi accumulati nell’espansione dell’istruzione e della partecipazione attiva allo sviluppo di una cultura di massa, la povertà educativa si è trasmessa per via intergenerazionale nei i ceti più svantaggiati e nei gruppi sociali in condizioni di povertà economica. La nostra tesi è che le responsabilità per un fenomeno così vasto e durevole non possono essere addossate al sistema d’istruzione e ancora meno alle condizioni in cui esso versa attualmente. Piuttosto, il ruolo della scuola va considerato all’interno del più ampio problema della storica bassa istruzione e debole partecipazione ad attività culturali. Nel nostro volume, raccogliendo una serie di analisi storiche e statistiche, abbiamo provato ad inquadrare le radici storico-culturali del problema e a “dimensionare” l’influenza della scuola, della famiglia e delle origini sociali.
Per quanto concerne il primo aspetto, riteniamo che il consolidamento di una cultura di massa di supporto e strettamente collegata all’istruzione scolastica abbia avuto luogo in forma troppo gracile: la cultura di massa si è formata dapprima sul versante dei consumi materiali, molto meno, o almeno in modo improvviso, ma tardivo, sul fronte della partecipazione piena e attiva di tutti gli strati sociali a pratiche culturali che ne stimolassero le competenze di base. Inoltre, lo sviluppo pieno dei media di massa nazionali, avvenuto soltanto a seguito del boom economico, è stato superiore alla loro capillarità e penetrazione, con aree geografiche e gruppi sociali che vi accedevano in ritardo, con una frequenza di strumenti e risorse di decodifica così bassa da coglierne soltanto le funzioni sensazionalistiche, di svago o di intrattenimento. Parimenti, la mancanza di politiche culturali ha frenato anziché accelerare la saldatura tra l’espansione dell’istruzione e la partecipazione culturale. Questo dinamica si è poi riprodotta nel tempo, rimanendo una questione ancora aperta e sicuramente distante dall’agenda delle politiche pubbliche.
Per quanto concerne il secondo aspetto – la scuola – riteniamo che la povertà educativa degli italiani non possa discendere dalla supposta decadenza dell’attuale sistema di istruzione. Come spiegare altrimenti i livelli così bassi di competenze di molti adulti di oggi che dalla scuola sono usciti diversi decenni fa? Gli attuali livelli di qualità, efficacia ed efficienza del sistema scolastico possono mai spiegare la povertà educativa endemica di coloro che hanno completato il percorso di istruzione ben 20, 30 o 40 anni fa?
Per dimostrare la fallacia della tesi dello scadimento della qualità dell’istruzione bisogna tenere conto del terzo aspetto, ovvero degli effetti del contesto extra-scolastico. Le analisi che presentiamo nel nostro volume hanno evidenziato l’elevato grado di persistenza e trasmissibilità intergenerazionale della povertà educativa. Da una generazione all’altra, come in un circolo vizioso, il peso del background familiare, delle disuguaglianze di origine sociale e di opportunità, le differenze nei comportamenti e nelle pratiche della vita quotidiana così come i divari nella qualità e nel contenuto delle occupazioni alimentano il diverso rischio di cadere nella povertà educativa, al di là e temporalmente oltre l’effetto potenzialmente equalizzatore della scuola.
Se in Italia la povertà educativa è molto diffusa i principali motivi vanno rintracciati non nella struttura e nel funzionamento del sistema scolastico, ma nelle sfere extrascolastiche. Tre sono le rilevanti concatenazioni nella trasmissione della povertà educativa tra genitori e figli: 1) un significativo effetto dell’origine socioculturale ed economica degli studenti sui livelli di apprendimento in lettura, matematica e scienze; 2) un’influenza altresì rilevante dalla composizione socio-economica e culturale della scuola che gli studenti frequentano; 3) un effetto prodotto direttamente dall’origine socioculturale ed economica sulla scelta del tipo di scuola (licei versus tecnici e professionali oppure istituti scolastici prestigiosi versus istituti scolastici periferici). Sono in atto effetti a catena: le origini socioculturali ed economiche influenzano gli apprendimenti in modo diretto, per effetto del capitale sociale, culturale ed economico trasferito dalle famiglie agli studenti e, in modo indiretto, attraverso le loro scelte scolastiche (tipo di scuola e tipo di indirizzo; proseguire gli studi all’università, fermarsi al diploma o addirittura prima) che, a loro volta, come esito della composizione sociale delle scuole e delle scelte, si riverbera sui risultati di apprendimento.
Questa dinamica vale tanto per gli studenti del Mezzogiorno che per quelli del Centro-Nord. Spicca però un’importante differenza: l’effetto di segregazione cetuale tra indirizzi scolastici alle superiori è più forte nel Mezzogiorno; mentre l’effetto di segregazione cetuale tra scuole all’interno di ciascun indirizzo è più marcato nelle regioni del Nord. In queste ultime però il benessere economico e modelli pregressi di sviluppo hanno favorito e favoriscono dotazioni di infrastrutture, servizi di welfare e accesso alla cultura più solide ed efficaci. Si pensi soltanto all’effetto determinante di una pre-istruzione di qualità: nelle regioni meridionali, a differenza di quelle settentrionali e centrali, non sempre le scuole dell’infanzia sono a tempo pieno e quest’ultimo è quasi del tutto indisponibile anche nelle scuole primarie. Ne risulta che negli anni decisivi dell’alfabetizzazione dei bambini delle regioni del Mezzogiorno e soprattutto di quelli che già vivono in condizioni di deprivazione economica e culturale, le opportunità educative sono ristrette e frammentarie rispetto a quelle su cui possono contare i bambini delle regioni centro-settentrionali e quelli in condizioni economiche e culturali migliori. E questo per quanto attiene alla popolazione in età scolastica.
Dalla scuola all’età adulta: la povertà educativa come processo cumulativo. Come già sottolineato, la povertà educativa è in Italia un problema che tocca soprattutto la popolazione adulta principalmente per l’effetto dell’obsolescenza delle competenze di base. Utilizzando una tecnica di pseudo-panel che permette di agganciare dati eterogeni misurati a distanza nel tempo, emerge che la quota di italiani tra i 26 e i 28 anni che ai giorni nostri evidenziano risultati peggiori in lettura e comprensione del testo rispetto a quando avevano 15 anni e frequentavano la scuola secondaria (22% circa) è più elevata di quella che include coloro che hanno invece risultati migliori adesso, rispetto al passato, quando erano a scuola (12,5%). Inoltre nella già ridotta quota di popolazione con un livello elevato nelle capacità di lettura all’età di 15 anni, a 13 anni di distanza ben il 32,3% ha peggiorato le proprie competenze. Infine, tra chi partiva dal livello di competenza medio, la tendenza al peggioramento (28,1%) è di gran lunga superiore a quella al miglioramento (19,4%). Evidentemente rispetto alle pratiche e ai consumi culturali gli italiani sono abulici e ciò che le istituzioni scolastiche riescono a sviluppare in età scolastica tende velocemente a deteriorarsi nel corso del tempo per effetto della scarsità di allenamento delle competenze di base nella vita quotidiana, nel mondo del lavoro e nel tempo libero. Tale condizione si riverbera, per gli effetti che abbiamo citato, nei bassi livelli di apprendimento dei figli, contrastando così l’effetto scuola. Se estendiamo il confronto tra i livelli di competenze in fase scolastica e in fase adulta alle fasce della popolazione meno giovane, ad esempio agli italiani tra i 36 e i 38 o a quelli tra i 46 e i 48 anni, la tendenza al peggioramento delle competenze di base nel corso del tempo è ancora più netta.
Concludendo. La povertà educativa è dunque solo in parte attribuibile all’inefficacia dei sistemi d’istruzione nel ridurre le disuguaglianze di origine della popolazione studentesca. Esiste una radicata dinamica di trasmissione intergenerazionale della povertà educativa: bassi livelli di competenze di base dei genitori sono correlati a scarsi stimoli culturali durante i processi di alfabetizzazione scolastica e di apprendimento formale. Pertanto, non solo le politiche educative e le riforme scolastiche, ma soprattutto le politiche di contrasto alla povertà dovrebbero meglio focalizzarsi sulla povertà educativa e a spezzare le catene della sua trasmissione intergenerazionale. Il contrasto alle varie forme di povertà dovrebbe esprimersi in primo luogo riconoscendo che quella educativa è una povertà “nascosta”, ma che produce danni evidenti in tutte le sfere del sociale nel corso della vita delle persone. In secondo luogo, le azioni di prevenzione e contrasto dovrebbero articolarsi in una pluralità di interventi di lungo termine configurando un processo continuo e diffuso di apprendimento lungo tutto l’arco delle vita e che interessi trasversalmente i molteplici ambiti della quotidianità (non solo quello scolastico): la famiglia, i luoghi di lavoro e di apprendimento; le relazioni amicali e il tempo libero; i consumi e le tecnologie mediali e digitali; la vita pubblica e la sfera della salute e del benessere.
fonte: https://eticaeconomia.it/la-piu-nascosta-delle-poverta/