Come previsto, la maggior parte delle principali banche italiane ha deciso di non pagare la tassa sugli extraprofitti: il gettito per lo stato sarà scarso e non ci sarà nessun rafforzamento supplementare del capitale. Rimane però una perdita di credibilità del sistema Italia.
L’annuncio
Nel “18 di Brumaio di Luigi Bonaparte” Karl Marx ci ricorda come nella storia molti fatti e personaggi si presentino, per così dire, due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Sembra essere la sorte della tassa sugli extraprofitti delle banche.
Il 7 agosto il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini annunciava in maniera del tutto inaspettata che il Consiglio dei ministri aveva approvato un “prelievo sugli ‘extraprofitti’ delle banche”, definendolo una “misura di equità sociale”, limitata solo al 2023. Tutti gli introiti sarebbero andati in “aiuto per i mutui delle prime case, sottoscritti in tempi diversi rispetto agli attuali, e il taglio delle tasse”. Il leader della Lega indicava poi che lo stato avrebbe incassato “alcuni miliardi”.
Il provvedimento provocò subito una forte caduta dei corsi azionari delle banche e venne criticato dagli organi di stampa nazionale e internazionale, dalla Banca centrale europea e da alcuni membri del governo. Oltre a essere stata mal disegnata e a essere distorsiva, la misura aveva alcuni tratti anticostituzionali e soprattutto rischiava di minare la credibilità del sistema paese.
Il decreto-legge venne trasmesso al Parlamento e pubblicato in Gazzetta ufficiale il 10 agosto, ma durante l’esame del testo in Commissione ambiente e industria del Senato i partiti di maggioranza presentarono un emendamento che cambiava molto il provvedimento. Da un lato, le banche potevano scegliere di non pagare la tassa purché destinassero un importo pari a due volte e mezzo il suo valore per rafforzare il loro patrimonio (per la precisione le riserve indisponibili). Se le banche avessero usato questa sorta di riserva per distribuire utili, avrebbero pagato una penale. Dall’altro lato, l’importo massimo della tassa da versare era portato allo 0,26 per cento sugli attivi ponderati (RWA), escludendo quindi i titoli di stato.
La logica dell’emendamento era quella di ridurre l’onere della tassa sul sistema bancario, renderla più equilibrata e concorrere al rafforzamento patrimoniale degli istituti di credito.
Cosa decideranno le banche
Le principali banche – parliamo per esempio di Unicredit, Intesa Sanpaolo, Banco Bpm, Mps, Bper, Popolare di Sondrio, Mediobanca e Credem – hanno deciso di avvalersi della facoltà di destinare le somme dovute come tassa sugli extraprofitti a riserva non distribuibile. In questo modo, l’erario viene privato di un incasso di 1,8 miliardi di euro circa.
Questo esito era stato preannunciato anche da una rapida simulazione – effettuata utilizzando le stime di Deutsche Bank sull’onere dell’imposta e i profitti attesi dichiarati dalle banche per il 2023 – che aveva indotto a credere che i principali istituti di credito italiani non avrebbero pagato un centesimo al fisco. La tassa sugli extraprofitti neppure inficerà troppo la loro politica di dividendi/accantonamenti.
Prendiamo il caso di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. In occasione della presentazione dei risultati del secondo trimestre, a fine luglio, il suo Ceo Carlo Messina affermava: “I risultati solidi e positivi dei primi sei mesi dell’anno ci consentono di aumentare la previsione di un utile netto 2023 ben superiore a 7 miliardi di euro”. E aggiungeva: “Quest’anno potremo distribuire ai nostri azionisti 5,8 miliardi”. In altri termini, la banca a fine luglio prevedeva di fare accantonamenti superiori a 1,2 miliardi, importo non molto diverso da quanto imposto dalla così detta tassa sugli extraprofitti (1477=2,5X 591 milioni).
La stessa conclusione si può trarre dal caso di Unicredit. Infatti, anche il Ceo di questa banca, Andrea Orcel, in occasione della presentazione dei risultati del secondo semestre nel 2023, aveva alzato i profitti attesi dell’anno a 7,25 miliardi e annunciava dividendi per 6,5 miliardi con un accantonamento di almeno 750 milioni di euro, solo leggermente inferiore a quanto previsto dalla tassa sugli extraprofitti (992=2,5X 397 milioni).
Anche per le altre banche minori la dimensione degli utili dovrebbe essere tale da permettere un’ottima distribuzione dei dividendi accompagnata da accantonamenti che superano i limiti imposti dal governo.
Nei prossimi mesi i profitti delle banche potrebbero ulteriormente salire provocando sia un aumento della tassa dovuta che delle somme da accantonare, ma non la natura della questione.
In altri termini la legge non solo non porterà alcun gettito allo stato, ma non produrrà alcun rafforzamento della struttura patrimoniale delle banche che non sia stato deciso dal management prima e indipendentemente dalla legge. Rimane il danno reputazionale e le infinite discussioni. Chissà come i banchieri spagnoli, cechi, ungheresi, irlandesi, olandesi e lituani, tutti paesi in cui è stata introdotta una tassa sugli extraprofitti, invidiano la commedia all’italiana.
Figura 1
l’’articolo è stato pubblicato originariamente in data 20 ottobre 2023.
fonte: https://lavoce.info/archives/102762/la-farsa-della-tassa-sugli-extraprofitti-delle-banche-2/