Colpevole o innocente nel prolungare le liste di attesa? Oppure l’attività libero professionale intramoenia (Alpi) è in realtà un – seppur limitato – antidoto a tale criticità?
La “invenzione” di questa italica istituzione viene poi attribuita, o meglio imputata, a questo o quel Ministro e tale imputazione, acriticamente ripresa dalla stampa e nei talk show, si basa su pregiudizi politici o personali antipatie, senza conoscere o citare date, norme, compagini governative che hanno istituito, modificato, regolamentato l’Alpi.
L’argomento invece non è privo di rilievo e di interesse, poiché trattasi di un dipanarsi normativo che copre un ventennio per poi essere richiamato, periodicamente, in provvedimenti – o auspici – fino ai nostri giorni. Costituisce in qualche misura una lente di ingrandimento, o una cartina di tornasole, utile a rileggere le diverse posizioni politiche nei confronti del SSN, i tentativi e anche le illusioni di riuscire a gestire e regolamentare questa atipica istituzione.
Istituzione atipica nell’ambito del pubblico impiego e, per quanto mi risulta, nel panorama internazionale; modalità di accesso a visite specialistiche e attività diagnostiche (i ricoveri in regime libero professionale costituiscono un fenomeno quantitativamente marginale: lo 0,3%) che suscita un comprensibile risentimento offrendo un percorso alternativo per “saltare la fila pagando gabella”.
Alcuni affermano che l’Alpi consenta di scegliere il professionista, non rivolgendosi genericamente all’equipe nel suo complesso incaricata di una specifica attività; questa peraltro è stata la ragione, la motivazione, o la “scusa”, che ha portato alla sua istituzione. La ragione di scelta del professionista è vera per un limitatissimo numero di specialità, come si evidenzia dall’esame delle liste di attesa in alcuni settori. Due discipline hanno generalmente tale profilo, presentando spesso liste di attesa più lunghe in libera professione che nella attività istituzionale: la ginecologia e l’ortopedia protesica. Per le altre specialità è largamente prevalente la necessità, o il desiderio, di accorciare l’attesa nonché l’auspicio di ottenere un inquadramento che consenta poi una collocazione nel calendario operatorio – in attività istituzionale – più consono ai propri desideri.
Mentre risulta evidente, sulla base di varie indagini, che il ricorso all’Alpi è motivato in grande prevalenza a causa della lunghezza delle liste di attesa o della distanza del presidio in cui la prestazione sia accessibile in tempi più accettabili, non vi sono ragioni per attribuire all’intramoenia queste criticità.
Infatti lunghe liste di attesa sono comuni a tutti i paesi europei, (con esclusione della Norvegia e della Svizzera) nei quali tale privata attività, nell’ambito della struttura pubblica in cui si lavora, non è prevista. Inoltre le liste di attesa si sono allungate mentre, contestualmente, la libera professione intramoenia si è ridotta, sia nel numero di medici che la praticano, sia in termini di prestazioni misurate sulla base dell’ammontare degli introiti. Infine la percentuale di attività in libera professione per alcune attività diagnostiche con lunghi tempi di attesa, quali gli esami in Tac e in Risonanza magnetica, rappresenta solo l’1% rispetto a quanto effettuato a livello istituzionale.
Quale è la vera causa delle lunghe liste di attesa? Il disallineamento fra domanda e offerta di prestazioni che ha le proprie radici su entrambi i fronti.
Per quanto concerne la domanda si tratta della ridotta capacità dei medici di medicina generale di offrire, nel proprio ambulatorio, una adeguate gamma di prestazioni, nonché la ridotta propensione a effettuare una funzione di gate-keeper in termini di appropriatezza degli accertamenti specialistici e diagnostici e di definizione dei criteri di priorità.
Sul fronte dell’offerta le maggiori criticità sono rappresentate dalla continua riduzione del personale medico e infermieristico e da una non appropriata organizzazione delle attività; inoltre vi è un utilizzo delle attrezzature diagnostiche scarsamente efficiente, per una inadeguata distribuzione nei vari presidi e per la loro l’obsolescenza.
La “storia” della libera professione intramoenia ha inizio nel Dicembre del 1992, durante la presidenza del Consiglio di Giuliano Amato. Il ministro della Sanità, Francesco De Lorenzo, aveva messo a punto, nell’ambito del Dlgs n. 502/1992, uno specifico articolo (art. 4) che imponeva ai direttori generali delle Unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere istituite dalla nuova normativa, di individuare e riservare spazi adeguati a esercitare la libera professione, da reperire anche mediante convenzioni con Case di cura e altre strutture private. Veniva inoltre definita la percentuale di posti letto per le camere a pagamento, che andava da un minimo del 6% a un massimo del 12%.
Con il Dlgs 7 dicembre 1993, n. 517, che rivede alcuni importanti aspetti della 502 (in particolare la previsione dell’opting out dal Ssn), il Governo Ciampi (ministra della Sanità Maria Pia Garavaglia) riduce la percentuale delle camere a pagamento, a un minimo del 5% e a un massimo del 10%.
Rosy Bindi, ministro della Sanità nel primo Governo Prodi, tramite la Legge 23 dicembre 1996, n. 662 introduce le incompatibilità (comma 5) tra l’esercizio della libera professione intramuraria dei dipendenti del Ssn e l’esercizio dell’attività libero professionale. Pertanto, i sanitari che optano per l’attività extramoenia non possono svolgerla presso strutture sanitarie pubbliche o private accreditate. Al comma 10 della legge si indicano le modalità di opzione del sanitario per l’esercizio della libera professione intramoenia o extramoenia, precisando che l’una esclude l’altra. La normativa stabilisce anche un incentivo finanziario alle Aziende sanitarie al fine di realizzare spazi per l’Alpi, con la finalità di riportarla all’interno della struttura pubblica, come da tempo previsto. Viene infine stabilito che il Governo ne riferisca annualmente in Parlamento.
Un successivo, più organico provvedimento (la cosiddetta riforma Bindi), è rappresentato al Dlgs 19 giugno 1999, n. 229 “Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419”, che disciplinata l’intramoenia – nell’ottica di concorrere alla riduzione delle liste di attesa – al fine che questa attività non superi, per ciascun dipendente, quella effettuata istituzionalmente. Viene inoltre stabilita l’incompatibilità, per chi opta per l’extramoenia, con incarichi di direzione di struttura semplice o complessa; normativa che viene più volte contestata anche per vie legali, ma sempre confermata, sia a livello di Corte di Cassazione sia da parte della Corte Costituzionale.
Durante il successivo governo, presieduto da Giuliano Amato, viene approvata la legge costituzionale n. 3 del 2001 che ridisegna le competenze di Stato e Regioni in campo sanitario. La “tutela della salute” (assai più ampia della dizione “assistenza ospedaliera” dell’ordinamento previgente) rientra nell’ambito delle materie oggetto di legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Le possibilità di programmazione e controllo in ambito sanitario, di livello nazionale, si indebolisce così progressivamente (si arriva perfino, nel 2008, alla abolizione, in base alla riforma Bassanini, del Ministero della Sanità, poi ripristinato) e ciò concerne anche la possibilità di controllare la corretta gestione dell’Alpi, che è affidata alle Regioni e, di fatto, alle singole Aziende sanitarie.
A seguito delle elezioni del 2001 e del cambio di maggioranza parlamentare si insedia il secondo governo Berlusconi; il ministro della Sanità Girolamo Sirchia si pone l’obiettivo di “Riformare la riforma Bindi”, ovvero, come esplicitamente dichiarato, di “debindizzare” la sanità. Fra i provvedimenti assunti a tal fine vi è la Legge n. 138/2004 che introduce la reversibilità dell’opzione per il rapporto di lavoro esclusivo e viene meno anche l’incompatibilità tra le funzioni di direzione e l’esercizio della libera professione extramoenia con la seguente formula: «La non esclusività del rapporto di lavoro non preclude la direzione di strutture semplici e complesse».
Nel secondo Governo Prodi (ministro della Sanità Livia Turco) viene emanata la Legge n. 120 del 3 agosto 2007, finalizzata principalmente a normare sotto il profilo economico tale attività: le tariffe devono essere concordate fra Regioni e professionisti e viene affidato al personale amministrativo delle Aziende la funzione di prenotazione e di riscossione; ciò al fine di permettere il controllo dei volumi delle medesime prestazioni, che non devono superare, globalmente considerati, quelli eseguibili nell’orario di lavoro.
Un ultimo intervento di rilievo su tale materia è predisposto dal ministro Renato Balduzzi durante il Governo Monti. Il Decreto-Legge 13 settembre 2012, n. 158, specifica (art. 2) ulteriormente che i costi devono essere coperti dai tariffari. La legge accentua l’attività sanzionatoria per il non rispetto delle norme e dell’equilibrio fra attività intramoenia e attività istituzionale con la decurtazione della retribuzione di risultato dei Direttori generali pari almeno al 20% e con la destituzione per grave inadempienza. Altro elemento innovativo del Decreto Balduzzi è la presa d’atto che in varie aziende sanitarie l’Alpi è ancora, in base a continue proroghe, attuata in strutture private. Pertanto, con l’obiettivo di sanare tali situazioni e porle sotto controllo, viene formalizzata l’Attività intramuraria allargata; gli studi professionali dovranno essere collegati in rete (con spese a carico del titolare dello studio) e i pagamenti per le prestazioni in regime Alpi devono avvenire tramite un metodo di pagamento sicuro e tracciabile.
L’Alpi, un istituto atipico, viene giustificato dalla volontà di dare libertà di scegliere, da parte del paziente (che ha disponibilità economica) il professionista di fiducia e di contribuire a ridurre le liste di attesa. Un’attività all’interno del Servizio sanitario nazionale, che contrasta di fatto con i fondamenti di equità di accesso, da calibrare in termini di appropriatezza professionale e temporale, sulla base dei bisogni della persona.
Un istituto atipico che non contribuisce di fatto alla riduzione delle liste di attesa (e non è certo causa della loro crescita) e che fonda in realtà la sua vera ragione e la sua permanenza nel compensare e giustificare in qualche misura i bassi salari – in continua riduzione in rapporto al potere di acquisto – del personale medico. Istituto che nessuno in realtà, nelle attuali condizioni, vuole e può abolire, come evidenzia l’assenza di tale proposito nei programmi elettorali di tutte le forze politiche, forse consapevoli dell’opposizione dei sindacati medici e della ulteriore fuga verso la sanità privata qualora un provvedimento di tale tenore venisse assunto.
Una normativa soggetta a continue proroghe; il ricorso a convenzioni con privati per acquisire locali per l’Alpi viene stabilito per la durata di un anno nel 1992 ed è soggetto a proroghe – fino a rendere stabile tale modalità – nel 2012!
Un’attività di cui non esiste un monitoraggio fin dal momento della sua istituzione, ma che viene stabilito solo nel 1996. Tuttavia allo stato attuale la prima Relazione disponibile sullo stato di attuazione dell’Alpi è del 2012.
Si tratta di documenti di indubbia utilità, ma, non essedo diffusa alcuna attività di ricerca valutativa su tale materia, privi di una informazione sulla distribuzione di compensi dei professionisti e di dati su eventuali sanzioni e provvedimenti per il mancato rispetto delle norme di equilibrio fra Alpi e attività istituzionale, ripetutamente richiamate nelle leggi; è inoltre assente una rilevazione sistematica dei motivi di ricorso all’Alpi per accedere alle prestazioni.
La lettura di questo itinerario normativo è lo specchio del diverso indirizzo che le forze politiche e i singoli responsabili del dicastero della Sanità hanno dato – o hanno sperato di dare – alla sanità del nostro paese. Compagini governative, forze politiche, ministri che hanno istituito l’Alpi, altri che hanno inserito l’incompatibilità fra extramoenia e direzione di struttura, in base a un elementare principio di conflitto di interessi; chi ha tentato, o ha sperato, di governare tale istituto, chi invece, sulla base di un principio di laissez faire, laissez passer, ha inteso abolire ogni incompatibilità.
Infine la progressiva regionalizzazione, di diritto e di fatto, e la ridotta capacità programmatoria delle Regioni, rendono sempre più difficile conoscere, comprendere e governare in modo equilibrato e omogeneo la attività libero professionale intramoenia.
Marco Geddes da Filicaia
fonte: https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=117982