Gli squilibri demografici si accentuano e rischiano di rendere insostenibile entro pochi anni il nostro sistema di welfare. Per invertire la tendenza servono politiche familiari adeguate. Nella manovra economica qualche passo avanti, ma non risolutivo.
Meno di un figlio e un quarto, è poco?
L’Istat ha reso ufficiale il dato della fecondità italiana nel 2022, che risulta pari a 1,24 figli. Dobbiamo considerarlo un dato basso? Quanto basso? Una prima risposta è che è tra i più bassi in Europa. Una seconda è che è molto inferiore al livello di 2,1 che corrisponde alla soglia di equilibrio nel rapporto quantitativo tra vecchie e nuove generazioni. La terza è che è molto lontano dal numero medio di figli desiderato (valore che varie indagini, comprese quelle Istat, collocano attorno a due).
C’è però un ulteriore motivo per considerarlo basso ed è legato all’effetto che ha sulle nascite. La persistenza della fecondità italiana su livelli molto inferiori alla soglia di equilibrio tra generazioni ha assottigliato le basi della piramide demografica, arrivando a erodere sempre di più la fascia in cui si fanno i figli. Ogni nuova generazione di potenziali madri risulta, pertanto, progressivamente più esigua. Ne consegue che più si va avanti nel tempo e più alla bassa fecondità corrisponderà un ancor più basso numero di nati.
Nel contempo, la longevità fa aumentare la popolazione anziana, cosicché le nascite in diminuzione rendono ancor più accentuati gli squilibri nel rapporto tra generazioni.
Le conseguenze di squilibri fuori controllo
Tutto questo significa che, per gli effetti che ne derivano, un numero medio di figli per donna pari a 1,24 è oggi ancor più grave che nei decenni precedenti e sarà ancor più grave nei decenni che ci aspettano.
In particolare, venticinque anni fa, a livelli di fecondità analoghi a quelli di oggi corrispondevano più di 520 mila nascite, mentre il dato attuale è inferiore a 400 mila (393 mila nel 2022). E se la fecondità dovesse rimanere sui bassi valori attuali, tra venticinque anni le nascite scenderanno a circa 340 mila. In più, venticinque anni fa i 75enni erano poco più di 480 mila, oggi sono oltre 650 mila e tra venticinque anni saranno più di 820 mila.
Il nostro paese condivide con le altre economie mature avanzate la sfida di assicurare una buona qualità della vita alle persone che, grazie alla longevità, arrivano in età anziana (con adeguate pensioni, possibilità di cura e assistenza). Ha, però, meno possibilità di riuscirci a causa della riduzione continua della consistenza delle nuove generazioni che entrano in età lavorativa: si andrà progressivamente a indebolire la spina dorsale del paese, ovvero la componente che genera sviluppo, finanzia e fa funzionare il sistema di welfare in generale.
Se l’Italia non inverte la tendenza rischia di affacciarsi alla seconda metà di questo secolo con ventenni ridotti alla metà dei settantacinquenni. Mettiamoci nei panni di quei ventenni: con squilibri così accentuati saremo per loro un paese attrattivo? Riusciremo a convincerli a rimanere per accollarsi il debito pubblico e i costi di un rapporto tra anziani e popolazione attiva tra i più sfavorevoli al mondo? È oggi che si decide se l’Italia andrà o meno incontro a tale destino.
Una manovra senza cambio di rotta
È bene essere consapevoli che per la situazione in cui ci troviamo (persistente bassa fecondità e struttura demografica sbilanciata a sfavore delle nuove generazioni), una solida fase di inversione di tendenza si può ottenere solo allineando le nostre politiche familiari, in combinazione con quelle generazionali e di genere, alle migliori esperienze europee. Il messaggio che deve arrivare è che chi desidera avere un figlio troverà nei prossimi anni supporto economico e servizi comparabili al meglio di quanto esiste oggi nei paesi con cui ci confrontiamo.
Le misure proposte nell’attuale manovra finanziaria mostrano buone intenzioni, ma ci lasciano ancora troppo lontani dai paesi più virtuosi. Cruciale è, inoltre, il piano di potenziamento dei nidi su tutto il territorio italiano, attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che però si confronta con difficoltà di realizzazione proprio nelle aree che più ne hanno bisogno.
Tuttavia, per ridurre squilibri tra i peggiori in Europa come quelli verso i quali si avvia il nostro paese, l’aumento della natalità non basta. In termini di ingressi sul mercato del lavoro, l’effetto positivo di una crescita delle nascite oggi si vedrà solo tra vent’anni e più. Nel frattempo, servono consistenti flussi migratori in grado di contenere nell’immediato la riduzione della forza lavoro potenziale (rispondendo alle esigenze delle imprese) e contribuire al rialzo stesso delle nascite.
Ma anche il contributo dell’immigrazione rimane debole senza adeguate politiche familiari, di genere e generazionali. Gli ostacoli che trovano i giovani e le donne di cittadinanza italiana sui propri percorsi professionali e di vita tendono a pesare ancor più su chi ha background migratorio.
fonte: https://lavoce.info/archives/102632/rischi-di-unitalia-in-crisi-di-nascite/
Alessandro Rosina è professore ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, dove dirige il “Dipartimento di Scienze statistiche” e il “Center for Applied Statistics in Business and Economics”. E’ stato membro del Consiglio direttivo della “Società Italiana di Statistica”, della ”Associazione Italiana per gli Studi sulla Popolazione” e redattore capo della rivista “Popolazione e storia”. E’ attualmente presidente dell’associazione Innovarexincludere e coordina la realizzazione dell’indagine “Rapporto giovani” promossa dall’Istituto Toniolo.