C’è una bizzarra convergenza sul salario minimo tra lavoratori precari e ricchi miliardari.
A Cernobbio molti autorevoli esponenti del grande capitalismo industriale e finanziario hanno dato – sorprendentemente – il loro endorsement al salario minimo e, più in generale, a una crescita della remunerazione del fattore lavoro. “Sostenere che è inevitabile mantenere gli attuali livelli salariali per garantire la sopravvivenza delle imprese, senza chiedersi se sia accettabile avere interi comparti basati interamente sul semi-sfruttamento, forse non è la strategia più opportuna per un Paese solidaristico” si legge nel Rapporto Ambrosetti, che prosegue: “Un intervento sui salari si tradurrebbe in maggiori consumi, dunque più pil e più gettito fiscale”.
Non illudiamoci, Paperon de Paperoni non è diventato generoso. Semplicemente è un vero capitalista, mosso dall’interesse. Può capitare che la mano invisibile di Adam Smith agisca nella medesima direzione dell’interesse generale. La scalabilità del mercato è un indicatore della sua qualità; pertanto, la sostituzione di agenti economici inefficienti – la distruzione creatrice – è un segnale di rinnovamento del sistema che attrae investimenti esterni, sostiene la domanda interna e aumenta i margini. Si sta creando una crepa profonda tra imprese di diversa taglia (finanziaria, dimensionale e tecnologica) che dà luogo sul versante della domanda a interessi contrastanti.
Il salario minimo e, in generale, migliori retribuzioni, condizioni lavorative, contratti, ostacolerebbero proprio quelle imprese che con la loro condotta spregiudicata alimentano la precarietà e fanno una concorrenza sleale alle altre aziende. Un salario minimo che alzasse i minimi tabellari dei CCNL più poveri metterebbe fuori gioco le imprese cattive e i sindacati pirata, a vantaggio dei lavoratori e delle imprese serie, alimentando una bonifica complessiva del sistema. Difficilmente, infatti, un’impresa che non riesce a pagare 7 € netti un’ora di lavoro rispetterà le pari opportunità, le prescrizioni sulla sicurezza, i contratti, e così via.
Verosimilmente, aumentare le retribuzioni farà crescere la convenienza a partecipare al mercato del lavoro e ciò farebbe, da un lato, diminuire la quota di popolazione aiutata da sussidi e, dall’altro, aumenterebbe il gettito fiscale e previdenziale, consentendo un miglioramento delle finanze pubbliche, con la conseguente possibilità di dare servizi migliori e fare investimenti che, a loro volta, creerebbero altra occupazione, riparando a vari guasti del sistema: alte disuguaglianze, fughe dei cervelli, inverno demografico, vulnerabilità delle famiglie.
Non è di questo avviso chi teme che l’aumento del costo del lavoro contragga la domanda di lavoro. Non ci sono evidenze in tal senso. In realtà, in molti Paesi il salario minimo ha prodotto un upgrade dell’impiego piuttosto che la distruzione di posti di lavoro ovvero una riconversione del sistema produttivo migliorativo in termini di processo, redditività e qualità dell’occupazione.
Tuttavia, il salario può essere una variabile esogena al mercato, definita per decreto? Chi ha introdotto un salario minimo per legge ha di fatto determinato il limite inferiore, lasciando al mercato tutto lo spazio per dispiegare le sue leggi in positivo. Abbiamo già esperienza di condizionamenti politici sul mercato: Dell’Aringa notava come la rigidità salariale italiana sia il frutto di istituzioni che rendono vischioso il processo di adeguamento dei salari. Per non parlare delle convenzioni ILO sui labourstandard che vietano il lavoro minorile, definiscono le ore massime lavorabili, sostengono la parità retributiva e promuovono la sicurezza sul lavoro.
Nei paesi che sperimentano il salario minimo legale, questo da tempo è usato sia come livello retributivo socialmente accettabile (name and shaming), sia come stimolo alla contrattazione (per consolidarne il plateau), che come leva per regolare la retribuzione (in base all’inflazione). Il salario minimo è un’arma multiruolo: controlla, difende e attacca.
Ma come si è arrivati a queste retribuzioni così basse in Italia? In grande sintesi, la dinamica salariale nel nostro Paese si arrestò quasi completamente con l’accordo sulla moderazione salariale orchestrato dal Presidente Ciampi con le parti sociali. Accordo importantissimo nel 1993 quando ci si preparava ad entrare in Europa. Tuttavia, il provvedimento da transitorio divenne stabile, da neutrale divenne regressivo, da un contributo simmetrico tra le parti sociali finì per essere sostenuto soprattutto dai lavoratori, favorendo la stagnazione delle retribuzioni.
Sterilizzare le rivendicazioni dei lavoratori è stato un errore: il conflitto sociale non è necessariamente scontro, serve a ridefinire periodicamente gli equilibri tra soggetti di forza diversa, in sintesi a riequilibrare profitti e salari. Frenare le rivendicazioni ha dato un indirizzo di politica economica preciso: stare sul sentiero basso di sviluppo. Implicitamente, notava Sylos Labini “si è scelto di sostenere attività tradizionali a bassa produttività”.
Pertanto, da un lato va superato lo stato di permacrisi – economica, sanitaria, sociale – che ci ha fatto arrendere per troppo tempo al ricatto “meglio un lavoro qualunque che niente” e, dall’altro, bisogna smarcarsi dalla opzione irregolare, usata come deterrente contro ogni rivendicazione di crescita delle retribuzioni. Qualsiasi idea, qualsiasi politica, anche la migliore, sono inibite dalla minaccia di ricorrere al lavoro irregolare o nero.
Il salario minimo innalza le retribuzioni più basse, quelle dei lavoratori con la propensione al consumo maggiore: quindi il costo complessivo (2,8 miliardi, Istat 2023) dell’incremento salariale verrebbe in parte ripagato dall’aumento del gettito fiscale e della domanda aggregata.
La strada alternativa che si sta percorrendo è ridurre il costo del lavoro attraverso un esonero contributivo del 6-7%. Il costo orario medio del lavoro (per imprese private con più di 10 dipendenti) in Europa è di 30,5 €, in Italia è di 29,4 €, in Spagna di 23,5 €, in Germania di 39,5 € e in Francia di 40,8 € e gli oneri sociali (contributi previdenziali) pesano per 8,1 € in Italia e Germania e per 10,9 € in Francia (F. Ceccato, M.A. Ciarallo e P. Conigliaro, lavoce.info, 05/01/2023). Abbassare i contributi a carico del lavoratore per ridurne il costo del lavoro implica o pensioni minori o oneri maggiori per la fiscalità generale. Ciò potrebbe richiedere tagli a welfare, sanità e istruzione: proprio i servizi pubblici fruiti dai decili più poveri. Il rischio è di avere salari maggiori e servizi peggiori (o pensioni minori). Una seria redistribuzione richiede nuovi equilibri tra profitti e salari ovvero, a parità di servizi, un aumento delle retribuzioni.
Un unico salario di riferimento per un paese così eterogeneo potrebbe condurre a costi del lavoro paradossali, sarebbe auspicabile una ponderazione per il costo della vita. Ovvero, l’art. 36 della Costituzione potrebbe venir interpretato come “va data una retribuzione adeguata e sufficiente a far vivere degnamente il lavoratore” dove abita, modulando la retribuzione per neutralizzare le differenze nel potere di acquisto tra territori. Ciò è, implicitamente, un passo verso differenziali retributivi territoriali. Al di là delle diverse sensibilità a riguardo sarebbe necessario disporre dei dati estremamente dettagliati e complessi, sia per comporre le differenze “Nord-Sud” che “Piccolo-Grande centro” ma, pure, per stimare il costo opportunità di vivere in aree interne o con poche infrastrutture e servizi, scale di equivalenze familiari e ulteriori complicazioni computazionali. Inoltre, oltre alle difficoltà operative, va considerato il rischio di scavare un solco ancor più profondo tra aree depresse e aree dinamiche, alimentando una variante del morbo di Baumol che porterebbe le attività a bassa produttività a non riuscire a sostenere le retribuzioni. La via maestra è il ricorso ad un percorso stabile di incentivi e sgravi selettivi per riallineare i territori verso produzioni di beni e servizi a maggior redditività.
Non si può non leggere congiuntamente retribuzione e discontinuità lavorativa. L’atipicità pone una grossa ipoteca sulla continuità reddituale. L’indagine Excelsior di Unioncamere rileva le intenzioni di assunzioni delle imprese: delle 550mila intenzioni di assunzione previste (luglio 2013) l’83% sono a termine; quindi, solo 90mila sono posti di lavoro nell’accezione corrente del termine, il resto sono micro-contratti. Il Rapporto del Ministero del Lavoro sulle comunicazioni obbligatorie è ancora più chiaro: l’81% dei contratti nel 2021 ha avuto una durata inferiore all’anno, il 50% meno di 3 mesi, il 31% meno di 1 mese e l’11% solo 1 giorno. Quello che manca è un lavoro proporzionale e sufficiente ad un progetto di vita.
In altre parole, nel mondo del lavoro ci sono molte finestre rotte (G. L. Wilson e J. Q. Kelling, The Atlantic, 1982): piccole irregolarità, pagamenti in nero, straordinari non retribuiti, contratti impropri, leggerezze sulla sicurezza. Un malcostume diffuso che rende comportamenti scorretti socialmente accettabili. C’è una rilevante questione morale nel mondo del lavoro.
Sarebbe opportuno valutare più configurazioni del salario minimo in via sperimentale (controllata), correggere tempestivamente eventuali errori nel disegno della misura e confrontarsi sui risultati che possono divergere a seconda dei settori e dei territori. Il riordino dovrebbe riguardare il complesso del trattamento lavorativo: retribuzione, contratti, orari, mansioni; la bonifica deve riguardare l’intero sistema, di cui la dinamica salariale è una parte.
Quasi in contemporanea abbiamo 2 interpretazioni del salario minimo, autorevoli e contrastanti.
Particolarmente rilevante è la recentissima sentenza della Corte di Cassazione (27711/2023) che chiarisce “il nostro ordinamento è ispirato a una nozione della remunerazione non come prezzo di mercato in rapporto alla prestazione di lavoro, ma come retribuzione adeguata e sufficiente per assicurare un tenore di vita dignitoso”. In altri termini, sottrae alla contrattazione tra le parti, ovvero organizzazioni datoriali e sindacati, la possibilità di derogare al principio costituzionale di retribuzione adeguata e sufficiente, per qualsiasi ragione, rimettendo ai giudici la facoltà di interpretare se la retribuzione sia in contrasto con l’art. 36 della Costituzione aiutandosi, in linea con la Direttiva europea, con i dati statistici prodotti dall’Istat e dall’Inps. Questa valutazione apre la strada ad un “salario minimo costituzionale”, ovvero ad una lettura estensiva del mandato dell’art. 36 che non è solo un auspicio generico ma un imperativo preciso, da far rispettare.
Di diverso avviso il Cnel che in un documento preliminare sostiene come il lavoro povero sia una questione marginale nel nostro Paese e la maggioranza dei lavoratori sia coperta dai CCNL.
Dunque, il salario minimo non è solo un numero: è la cifra della civiltà del lavoro che vogliamo dare al Paese. Sarebbe bello se questo dibattito rappresentasse un punto di svolta che aprisse la stagione del lavoro di qualità, visto che impieghi precari, culle vuote, morti sul lavoro e bassi salari – a parole – non li vuole nessuno.
fonte: https://eticaeconomia.it/zio-paperone-e-il-salario-minimo/