Nelle nostre mani: all’Assemblea nazionale delle volontarie e dei volontari dei campi della legalità. di Pietro Grasso

Gentili ospiti,
è per me davvero un piacere essere qui stamattina con voi e intervenire, ancora una volta, alle iniziative organizzate dallo SPI-CGIL. Tra i relatori e le relatrici di questa mattina posso davvero dire di essere “di casa”, con ciascuno ho partecipato, negli anni, a incontri, iniziative, convegni, libri, campagne di informazione, momenti formativi, cortei, manifestazioni.

C’è un’aria familiare in questa sala, ma i primi a cui voglio mandare un sincero e profondo ringraziamento siete voi, le volontarie e i volontari che ogni anno decidono di dedicare parte del loro tempo libero a un progetto davvero importante, quello del lavoro nei campi di legalità su tutto il territorio nazionale.

Credo davvero che questo sia uno dei percorsi di impegno, memoria e costruzione di senso critico più efficaci nel nostro Paese, perché mette insieme la “carta dei valori” sul rispetto delle regole e delle normative sul lavoro, la percezione dell’impatto economico che la criminalità ha sui singoli e sulla società, l’impegno anche fisico, la fatica dell’impegno, per difendere valori irrinunciabili, la capacità di mettere in relazione ragazze e ragazzi di provenienze diverse, l’importanza del ruolo del sindacato, il dialogo tra le generazioni, in uno scambio ideale tra memoria e esperienza da un lato, e stimoli e conoscenze nuove dall’altro.

So che in alcuni campi viene messo a disposizione come testo di lettura “Terra e Libertà”, il libro che raccoglie la vita dei sindacalisti uccisi dalle mafie. Ho avuto il privilegio di scriverne la prefazione: vorrei riprendere qui il concetto iniziale, e aggiungere alle storie raccontate un
piccolo tassello.

Cito le prime righe: “Il lavoro, oltre che fondamento della nostra Repubblica democratica, è anche l’unico antidoto vero al potere delle mafie: dove c’è il lavoro giusto – nei diritti, nella retribuzione, nella sicurezza – non c’è ossigeno per la criminalità. Al contrario, dove la sopravvivenza è una lotta e i diritti vengono tenuti in ostaggio e offerti come privilegi, lì si annida il potere delle mafie.

Per questo, per più di un secolo, ben prima di giornalisti, magistrati e sacerdoti, a cadere per mano mafiosa è stato chi difendeva il lavoro e i lavoratori, almeno sin dai primi anni del Novecento. Nell’arco del secolo scorso, infatti, molti omicidi, lontani nel tempo e per le circostanze, sono uniti da un filo: è il filo della lunga lotta del mondo del lavoro per l’emancipazione da ingiustizie e servitù antiche, dell’impegno civile e sindacale per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici”.

Alla storia di alcuni dei sindacalisti uccisi è legata anche la mia storia personale. Tutti avrete sentito parlare di Placido Rizzotto, non tutti forse di Giuseppe Letizia. Giuseppe Letizia era un po’ più piccolo di voi, ufficialmente frequentava la scuola ma in realtà, come accadeva spesso allora, lavoravanei campi intorno al suo paese, Corleone, vigilando sul piccolo gregge del padre. Restava spesso fuori con le pecore anche di notte, come accadde anche quella sera del 10 marzo 1948. Era solo con gli animali, e nel buio fu svegliato dal rumore di un’auto. Rimase nascosto. Stavano trascinando un uomo, Placido Rizzotto, che poi iniziarono a colpire con calci e pugni di atroce violenza. Probabilmente Giuseppe svenne per la paura, e non sentì nemmeno il rimbombo dei tre colpi di pistola che uccisero l’uomo. Placido Rizzotto era un sindacalista, guidava la lotta dei contadini che chiedevano la divisione dei latifondi terrieri e come forma di protesta, aveva proposto di occupare delle terre che erano destinate a Luciano Liggio, mafioso di Corleone. Fu proprio Liggio – con l’accordo del capomafia di zona, Michele Navarra – a decidere, insieme a due complici, di uccidere Rizzotto. L’indomani mattina, il povero Giuseppe Letizia venne svegliato dal padre: stava male, sembrava che delirasse. Il padre lo portò all’ospedale di Corleone – allora diretto proprio da Michele Navarra, che non era solo un boss mafioso ma anche un rinomato medico: morì la mattina dopo, avvelenato. Nella vicenda di Giuseppe Letizia c’è tutto quello che serve per capire la mafia: un boss all’apparenza rispettabilissimo, addirittura il direttore di un ospedale; la violenza per prevenire e reprimere ogni legittimo desiderio di uguaglianza e di giustizia; la difficoltà della legge a farsi valere, anche se schiera i suoi uomini più determinati; l’omertà dettata dalla paura, tanto da spingere a mentire persino i genitori di Giuseppe; l’uccisione senza rimorsi di vittime innocenti.

Oggi la mafia si occupa meno di terre e più di finanza, ma le catene con cui opprime interi territori, inquina l’economia del Paese, nega i diritti di libertà, giustizia e lavoro dignitoso sono le stesse di allora. La mafia, infatti, riesce a evolvere rimanendo se stessa. Oggi, grazie all’adozione di nuovi dispositivi digitali, le organizzazioni criminali si stanno trasformando in entità sempre più adattabili e versatili nel loro approccio. Questo consente loro di operare in diversi settori dell’economia e della finanza, integrando l’esperienza criminale nel sistema nazionale e internazionale attraverso il riciclaggio di denaro e la condivisione di contenuti e informazioni. Internet ha avuto un notevole impatto sul modo in cui la criminalità organizzata agisce nell’ambito dell’economia e dei mercati globali, grazie a vantaggi come l’anonimato, la capacità di comunicare in tempo reale attraverso crittografia, l’accesso a mercati più vasti. Questa trasformazione è resa possibile grazie all’impiego di professionisti altamente competenti, che contribuiscono a sviluppare strategie online, come la creazione di piattaforme di comunicazione criptate, l’utilizzo del dark web, del deep web o dei social network.

La cattura e la morte di Matteo Messina Denaro segnano simbolicamente un passaggio generazionale: lo stesso passaggio dobbiamo farlo nelle modalità di contrasto, sia sul lato della repressione criminale che su quello della cultura della legalità. Per questo vedervi qui oggi, sapere che migliaia di giovani sono stati nei campi, come ogni anno, e che continuerete, è fonte di grande speranza.

La confisca dei beni ai mafiosi, è stata un grande successo spinto nel 1995 da una Libera appena nata e dalla raccolta di migliaia di firme, che hanno visto concretizzarsi la loro richiesta con la legge n. 109 del 7 marzo 1996. Sono passati quasi trent’anni da quel momento, e possiamo fare un bilancio della strada percorsa. Un bilancio fatto di grandi esempi positivi, cooperative, associazioni ed enti locali hanno messo a valore collettivo migliaia di beni confiscati, riuscendo a sollevare comunità e territori e a dimostrare che la legalità è davvero la via maestra per uno sviluppo sostenibile, sia a livello economico che sociale. Allo stesso tempo, sappiamo che molto ancora è migliorabile: è difficile avere il censimento completo dei beni, a volte passano anni prima dell’assegnazione ai fini di riutilizzo, troppo spesso aziende e imprese falliscono nel frattempo, dando un segnale controproducente. Dobbiamo pretendere di più, e meglio.

Nel 2001, con la nascita in Sicilia della prima cooperativa selezionata con bando pubblico, il progetto denominato “Libera Terra” entrò finalmente nel vivo: intitolata proprio a “Placido Rizzotto”, il sindacalista ucciso da Luciano Liggio, la nuova compagine di cooperanti iniziò la coltivazione di terreni sottratti proprio al clan dei corleonesi nell’alto Belice. Ricordo l’esperienza drammatica vissuta in quegli anni da Procuratore di Palermo, quando, pur non avendo competenze, ricevevo quasi giornalmente amministratori giudiziari, i quali, seppur nominati e gestiti dai Tribunali per le misure di prevenzione, mi chiedevano di far da tramite con i carabinieri o con la Guardia di finanza per tutti i problemi creati sul territorio dalla presenza mafiosa. Quelli che non venivano evidentemente avevano risolto in altro modo. Difatti anche successivamente da Procuratore Nazionale antimafia ricordo che, per esempio in Calabria, abbiamo trovato beni che erano ancora in possesso dei mafiosi, che pur li avevano avuti confiscati in maniera definitiva, tanto che in un caso, alcuni cacciatori erano andati per cacciare furono cacciati da alcuni figuri che glielo impedirono.

Allora lottai, insieme a Libera, perché la competenza esclusiva del Demanio, corretta dal punto di vista burocratico, passasse ad una Agenzia del Ministero dell’Interno, un unico soggetto che, superata la fase straordinaria del Commissario governativo degli esordi della legge 109, potesse farsi carico della gestione dei beni dal sequestro all’assegnazione e che attraverso i prefetti potesse intervenire con controlli delle forze dell’ordine, in modo da liberare intanto i terreni dalla presenza mafiosa e far vedere sul territorio la presenza dello Stato. Alla fine tale proposta riuscì ad essere approvata dal Parlamento solo nel 2010, con la nascita dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC).
Questi i dati dei beni in gestione al 31 marzo 2021: 18.518 immobili; 2.929 aziende, di cui 1.149 inattive fin dalla data del sequestro e da liquidare.
Da sempre e da più parti é stato individuata, senza soluzioni definitive, quella che é l’esigenza principale. La necessità di trovare un metodo condiviso per poter procedere a rapide destinazioni provvisorie, in fase di sequestro dei beni, che possano evitare danneggiamenti mafiosi, abbandoni usuranti, e così mantenere inalterate le condizioni strutturali degli immobili e soprattutto delle attività aziendali, facilitandone poi il loro riutilizzo sia in caso di revisione che in fase di confisca definitiva. In realtà la soluzione sarebbe trovare già al momento del sequestro e dell’immediata assegnazione un adeguato sostegno economico e finanziario, implementare gli strumenti finanziari per la gestione dei beni e la valorizzazione delle imprese (ex art. 41 del Codice Antimafia), soprattutto in considerazione della dimensione delle aziende, nella gran parte piccole e medie, che hanno difficoltà ad ottenere linee di credito per l’incertezza dei rapporti giuridici, dei requisiti patrimoniali, tali da accedere a linee di sostegno bancarie, ministeriali o da parte degli enti locali.

Uno strumento utile a tale fine potrebbe essere quello di applicare le procedure di co-programmazione e co-progettazione (ex art 55 del Codice del Terzo Settore) alla fase di assegnazione dei beni confiscati dal momento della loro destinazione agli enti locali.

Ma la vera difficoltà per le aziende sequestrate e confiscate, però, è dover pagare il costo dello stato di illegalità in cui sono nate e hanno fondato la loro attività: lavoratori in nero o sottopagati, immobili con destinazioni d’uso irregolari, clienti e fornitori che abbandonano le commesse perché non ritengono di avere delle garanzie sufficienti o perché non intravedono più la gestione criminale. Ad oggi, oltre alle risorse finanziarie di fondazioni ed enti privati, non possiamo non citare le Politiche di Coesione e i Fondi Europei, in particolare con la Strategia nazionale per la valorizzazione dei beni confiscati attraverso le politiche di coesione.

Purtroppo ad oggi l’utilizzo di queste risorse è ancora sottovalutato e parzialmente disatteso sia nell’attuale ciclo di intervento europeo, sia nell’odierna fase di definizione della programmazione europea 2021/2027, sia infine alla luce del Piano nazionale di ripresa e resilienza, su cui si riponevano tante speranze, deluse dall’attuale Governo, che ha scelto di tagliare centinaia di progetti, per un totale di 300 milioni di euro, senza nemmeno avvisare i Comuni che ne avevano co-finanziato taluni, sollecitati dall’Agenzia di coesione territoriale ad accelerare i tempi. Certo si tratta di somme minime rispetto all’intero PNRR, ma laddove si vive di simboli appare un segnale di resa sul fronte dei beni confiscati.

Se da una parte, per i piccoli Comuni non è sempre facile avviare delle pratiche di progettazione e di rendicontazione di questi fondi, è importante che si trovi il modo di affiancare gli amministratori e fare in modo che sia sempre più agevole la fase di valorizzazione e di ristrutturazione di questi beni.

Il 60% dei Comuni non è in grado di rendersi trasparente nella condivisione dei dati sui beni confiscati, attraverso l’elenco obbligatorio da pubblicare. Questo evidenzia, ancora una volta, come sia necessario predisporre ulteriori interventi di sostegno e formazione per gli amministratori locali, che sono la parte terminale di un percorso lungo e tortuoso. Sotto questo
profilo come Fondazione Scintille di futuro stiamo approfondendo delle linee guida che verranno presentate, insieme ad Avviso Pubblico, alla scuola di formazione per amministratori pubblici che si terrà a Bertinoro tra il 17 ed il 19 novembre prossimo. Pagine che ci auguriamo possano diventare strumento di lavoro per tutte le amministrazioni, a prescindere dalle loro dimensioni e dalla concentrazione di beni sul territorio, ma soprattutto che possano richiamare ognuno degli attori impegnati alla costruzione di una comunità alternativa a quella mafiosa.

L’obiettivo da raggiungere è quello di proporre al più presto una proposta di legge, che possa riformare il Codice Antimafia (D.Lgs. Num. 159\2011 e ss.mm.) nel modo migliore possibile.

In questo momento, come in ogni Legislatura, è stato depositato un Disegno di Legge, a prima firma Pittalis, che cerca di limitare la possibilità di sequestro e confisca. Questo succede soprattutto perché, negli anni, la possibilità di togliere i beni è stata estesa molto, non solo come era stata pensata all’inizio per la criminalità organizzata e la corruzione ma per diversi altri reati che colpiscono la classe dirigente, politica ed economica.

Dovremo quindi vigilare che il Ddl non proceda, perché sarebbe del tutto illogico e immorale fare passi indietro.

Frattanto alle prime cooperative come la Placido Rizzotto, nonostante le gravi intimidazioni, i danneggiamenti, gli incendi di trattori, uno dei quali ricomprato attraverso cene di solidarietà organizzate dai giovani della regione Toscana, che come voi avevano passato l’estate nei campi e avevano deciso insieme alla cooperativa di resistere, di non cedere alle intimidazioni, si aggiunsero negli anni successivi le altre cooperative che in Calabria, Puglia, Campania, Sicilia avviarono coltivazioni e produzioni di beni alimentari che, oggi, hanno il marchio della qualità nella legalità – appunto “Libera Terra” – e che hanno raccolto consensi da parte dei consumatori e premi di varia natura, per l’elevato livello raggiunto nel corso di poco più di un decennio. Le cooperative oggi sono raccolte nel Consorzio Libera Terra Mediterraneo e sono una realtà in crescita.

Questo successo dimostra una verità incontrovertibile: se le mafie, come sappiamo, sono organizzate, noi dobbiamo organizzarci meglio di loro. E insieme lo faremo.

 

Intervento di Pietro Grasso all’Assemblea nazionale delle volontarie e dei volontari dei campi della legalità NELLE NOSTRE MANI- Roma 24 ottobre 2023

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