Il pericolo della secessione dei ricchi. di Gianfranco Viesti

Quali sono il quadro e le prospettive del regio­nalismo italiano, e più in generale lo stato del decentra­mento politico e amministrativo nel nostro paese? Si tratta di una domanda importante, che riguarda il potere e i diritti dei cittadini in Italia: i livelli di governo che hanno maggiore possibilità, per competenze e risorse economiche, di prendere le de­cisioni più importanti sulle grandi politiche pubbliche; e come e quanto, a seconda dell’organizzazione del potere, possono essere garantiti i diritti costituzionali dei cittadini nei diversi territori del paese. Temi con una grande valenza politica, che in­fluenzano tanto i principi di parità dei diritti di cittadinan­za degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, a partire dalla scuola.

La questione è analizzata nel mio volume Contro la secessione dei ricchi, le cui tesi di fondo sono due. La prima è che il grande processo di decentramento dei poteri, in particolare a favore delle regioni – avviato in Italia negli anni Novanta e fortemente consolidato dalla riforma costituzionale del 2001 – ha determinato un quadro assai insoddisfacente, ricco di conflitti e di problemi, che merita senz’altro una paziente e incisiva azione di miglioramento e di riforma, senza eccessivi sbandamen­ti nelle opposte direzioni di un maggiore accentramento o di un ulteriore decentramento dei poteri.

La seconda tesi è che il dibattito politico degli ultimi anni non è orientato a ri­solvere questi problemi, ma a crearne di nuovi, gravi. È incentrato sulle richieste di decentramento asimmetrico e di maggiori poteri e maggiori risorse, ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione.:

Il regionalismo differenziato, per come sono state concretamente formulate le richieste prima da tre regioni e poi da altre, è un processo da evitare perchè peggiore­rebbe la situazione d’insieme, concentrerebbe troppo potere nelle mani di pochi presidenti di regione e renderebbe ancora più difficile garantire i di­ritti civili e sociali a tutti i cittadini. Dunque, avrebbe conseguenze negative sull’intero pae­se e sui suoi cittadini anche per molti versi, quelli delle stesse regioni che desiderano nuove com­petenze. Non si tratta infatti di decentramento, bensì di una sostanziale “secessione dei ricchi”.

Con “secessione dei ricchi” si definisce il processo che si avvierebbe con la concessione alle regio­ni delle nuove competenze così come richieste. La parola “secessione” è usata per richiamare una separazione che, seppure non di diritto, sarebbe nei fatti. Le regioni dotate di maggiori autonomie si configurerebbero infatti come delle regioni-Stato, seppur formalmente ancora dentro la cornice nazionale. Esse godrebbero di poteri estesissimi e delle risorse per esercitarli, anche se in modo diffe­renziato fra di loro. Parallelamente, si avrebbe un depau­peramento della capacità del governo e del Parlamento italiano di affrontare questioni vitali con le politiche pubbliche ritenute più opportune. Ad essi rimarrebbero ritagli di competenze per ritagli di terri­tori: l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco, confuso, inefficiente.

La secessione è dei ricchi in due sensi. In sen­so geografico, perché le nuove regioni-Stato includerebbero inizialmente quelle più ricche, che hanno avviato il processo, con una cesura rispetto al resto del paese. All’obiezione che già oggi le disparità territoriali sono significative è facile replicare: esse sono un dato di fatto che, a norma della Costituzione, si cerca di contrastare; con l’autonomia regionale differenziata diverrebbero dispari­tà previste dalle norme. Lo è in senso economico-sociale, poiché il processo è spinto dal desiderio degli ammini­stratori di queste comunità di poter disporre di una parte del gettito delle tasse pagate nelle loro regioni superiore a quanto oggi lo Stato spende nei loro territori. Risorse che, a norma di Costituzione, devono essere utilizzate per fornire essenziali servizi pubblici, e quindi garantire diritti di cittadinanza, a tutti gli italiani, indipendentemente dal luogo in cui vivono. In Italia vigerebbe una sorta di ius domicilii, che lega i diritti alla residenza.­

Per argomentare queste conclusioni è utile, in primo luogo, una comparazione internazionale: la realtà dei paesi europei è pro­fondamente diversa. Negli ultimi decenni è generalmente cresciuto il grado di decentramento, anche se esso continua a presentare grandi differenze fra paesi come Germania e Spagna, da un lato, e Francia, dall’altro. Non è possibile individuare un livello ottimale di trasferimento di poteri dallo Stato nazionale verso regioni ed enti locali: vi sono, in teoria e nell’esperienza internazionale, vantaggi e svantaggi di cui bisogna tenere attentamente conto. Vi sono poi esperienze di decentramento asimmetrico, cioè di poteri diversi attribuiti a enti dello stesso livello di go­verno, e anch’esse sono in aumento. Tuttavia, riguardano principalmente il governo delle città e non le regioni. Il caso spagnolo è di par­ticolare interesse, soprattutto perché in quel paese vi è un decentramento asimmetrico dei poteri e dei meccanismi fi­nanziari delle comunità autonome (assimilabili alle regioni italiane); ma proprio le vicende spagnole del XXI secolo mostrano i rilevanti rischi di conflitto associati a queste asimmetrie. L’Europa ha visto vere e proprie secessioni: ma attualmente, nei paesi membri dell’UE, sono assai più interessanti le dinamiche che possono portare a “secessioni di fatto” per cui l’unità nazionale è modificata sostanzialmente anche se non formalmente.

In Italia il ruolo degli enti locali e in partico­lare delle regioni è fortemente cresciuto dopo la riforma costituzionale del 2001. Ma l’assetto che ne è scaturito è largamente insoddisfacente. Il quadro dei poteri è confuso e conflittuale; nei primi venti anni del secolo, il livello di governo nazionale si è indebolito e si è fortemente accre­sciuto il ruolo delle regioni e dei loro presidenti, con atteg­giamenti di “sovranismo regionale” volti ad accrescere il loro potere e la loro capacità di intermediare risorse pub­bliche. Province e aree metropolitane sono in una situazio­ne di grande incertezza, mentre i comuni – storicamente perno del governo locale in Italia e più vicini ai cittadini – sono schiacciati dalla carenza di risorse e dal controllo che le regioni esercitano su di loro. Per di più le autonomie speciali esistenti determinano rilevanti, ingiustificate ini­quità. In questo quadro i cittadini non hanno la possibilità di conoscere e giudicare ciò che i loro amministratori fan­no, e il livello centrale non interviene per garantire i loro diritti, come è evidente nel caso della sanità. Tuttavia, alla fine degli anni Venti la pandemia Covid ha tragicamente mostrato i costi di questa situazione, e la più importante iniziativa di politica economica, il Pnrr, ha visto una forte centralizzazione del potere nell’esecutivo nazionale.

Gli aspetti economici dell’at­tuale decentramento italiano sono definiti dalla legge 42 del 2009 – che mira ad attuare i nuovi arti­coli della Costituzione relativi al finanziamento di regioni ed enti locali –, inclusi i capisaldi dell’intero meccani­smo: i livelli essenziali delle prestazioni, cioè il nucleo dei diritti sociali e civili da definire e garantire a tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale; e i fondi perequativi, volti a determinare parità nei finanziamenti a realtà amministra­tive operanti in territori con diversa ricchezza. Ma la legge ha fatto pochissimi passi in avanti. Quasi nessuno per quanto riguarda le regioni, anche conside­rando che il finanziamento della loro principale voce di bilancio, e cioè la sanità, non tiene conto dei fabbisogni di salute della popolazione: in sanità i livelli essenziali di assistenza esistono da molto tempo, ma sono irrilevanti per determinare fabbisogni e finanziamenti.

Per quanto riguarda i comuni, invece, la legge 42 è stata este­samente applicata, anche grazie a un importante sforzo tecnico. Ma a lungo in modo distorto: in assenza dei Lep, i fabbisogni sono stati rapportati alla spesa storica; il fondo di solidarietà comunale procede con tempistiche assai lente, e dovrebbe andare a regime solo trent’anni dopo la riforma costituzionale. In questo quadro, tuttavia, vi sono anche esempi positivi: è il caso del Lep relativo ai nidi fis­sato nel 2022, e accompagnato da finanziamenti aggiuntivi per consentire a tutti i comuni di realizzarlo. Vicenda che mostra come siano necessari una volontà politica determinata e un attento disegno tecnico per procedere verso una maggiore uguaglianza fra i cittadini.

Ma questi temi non sono sull’agenda politica. Dominano le vicende dell’autonomia differenziata, che fu originata dalle richieste delle giunte regionali di Veneto e Lombardia di acquisire tutte le competenze possi­bili mantenendo nel loro territorio una parte di quello che definiscono il loro residuo fiscale; e che ha preso slancio quando l’Emilia-Romagna guidata dal Partito democratico, avanzò analoghe richieste. A inizio 2018 il governo Gentiloni ha siglato Pre-Intese dai contenuti estremamente discutibili con le tre regioni. Il successivo governo Lega-Movimento 5 Stelle è arrivato davvero a un passo dal concedere tutti i poteri e i privilegi finanziari richiesti, frenato solo da una riconsiderazione del tema da parte dei 5 Stelle. Uscita dalle priorità nel periodo del Covid, l’autonomia re­gionale differenziata è tornata in primo piano nel 2022 con il governo Meloni, che ha fatto propria una legge-quadro proposta dal ministro leghista Calderoli per favorire il più possibile le richieste regionali.

Perché è una seces­sione dei ricchi? L’Italia sarebbe radicalmente trasformata con la nascita di regioni-Stato al suo interno. Esse, infatti, godrebbero di poteri estesissimi in materie fondamentali, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’ambiente, alle politiche industriali e in molti altri ambiti, come è dettagliatamente ricostruito nel volume. Avrebbero fine la scuola pubblica italiana, il Servizio sanitario nazionale, il sistema unitario delle infrastrutture e dell’energia. Il tut­to in un quadro di estrema confusione, dato che le com­petenze richieste dalle regioni – a cui è assai probabile che si affianchino subito tutte le altre a statuto ordinario – sarebbero comunque differenziate fra loro. Il governo centrale avrebbe poteri residuali, e competenze su ritagli geografici. L’Italia diverrebbe un paese arlecchino, nel quale sarebbe impossibile condurre fondamentali politiche nazionali, anche nel solco di quelle europee; e nel quale il sistema delle imprese andrebbe incontro a cre­scenti difficoltà per la frammentazione legislativa e opera­tiva che si potrebbe creare in molti mercati, dall’edilizia ai prodotti alimentari.

Ma la secessione dei ricchi si verificherebbe anche per gli aspetti economici. Le regioni richiedenti mirano infatti a ottenere condizioni vantaggiose del tutto assimilabili a quelle delle autonomie speciali. Veneto e Lombardia hanno da sempre chiaramente collegato le richieste di autonomia al desiderio di trattenere per sé una parte del cosiddetto resi­duo fiscale regionale, cioè di un ipotetico ammontare pari alla differenza fra il gettito fiscale e la spesa pubblica che hanno luogo nei loro confini. Si tratta dei “soldi del Nord” della tradizione leghista: un calcolo fuorviante, che non tiene conto delle disposizioni costituzionali relati­ve alla progressività del prelievo fiscale e all’universalità dell’accesso dei cittadini ai servizi pubblici: i residui fiscali fanno capo agli individui, non ai territori.

Lo strumento per ottenerlo è complesso tecnicamente, ma chiaro politi­camente: la previsione di un’aliquota di compartecipazio­ne al gettito dei tributi nazionali, che consentirebbe alle regioni di godere di risorse garantite senza dover tassare i propri cittadini. Risorse che con il tempo potrebbero crescere, a danno degli altri italiani. E nulla si sa circa al­tri possibili effetti finanziari a loro vantaggio, ad esempio connessi al trasferimento gratuito di parti del patrimonio pubblico nazionale. A poco vale l’enfasi comunicativa sul­la contemporanea determinazione dei livelli essenziali del­le prestazioni (Lep): a parte le difficoltà tecniche, fissarli senza garantire risorse aggiuntive molto ampie significa cristallizzare le disparità esistenti.

I ministri leghisti a cui è sta­ta affidata la questione – prima nel governo Conte I, poi nel governo Meloni – hanno cercato di prevedere modalità procedimentali per arrivare all’auto­nomia differenziata, le più favorevoli possibili per le re­gioni. Sono basate sulla centralità della trattativa fra gli esecutivi nazionale e regionale, sulla marginalizzazione del ruolo del Parlamento, cui sarebbero affidati compiti di mera testimonianza, sulla massima segretezza possibile sugli specifici contenuti delle Intese Stato-regioni, da te­nere accuratamente al riparo dall’attenzione dell’opinio­ne pubblica, sul trasferimento delle fondamentali scelte di dettaglio a commissioni paritetiche, sempre Stato-regioni, con decisioni anch’esse al riparo dall’intervento del Par­lamento e della Corte costituzionale. Il disegno di legge governativo che mira a questi risultati è attualmente (ottobre 2023) in discussione in Senato.

L’Italia ha bisogno di un paziente processo di riscrittu­ra dei suoi assetti decentrati, senza nostalgie centralistiche o fughe in avanti. Le richieste di maggiore autonomia così come presentate dal­le regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna dovrebbero essere respinte; l’articolo 117 della Costituzione rivisto, il terzo comma dell’articolo 116 eliminato, o quantomeno radicalmente trasformato (come proposto da una legge di iniziativa popolare promossa dal Coordina­mento per la democrazia costituzionale, pure attualmente in discussione in Senato). Ne va del futuro dell’Italia nei prossimi decenni.


fonte: https://eticaeconomia.it/il-pericolo-della-secessione-dei-ricchi/ *

* Questo testo è una rielaborazione dell’Introduzione a “Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale” (Laterza 2023). Viene contemporaneamente pubblicato anche su “Sbilanciamoci”

 

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