Quali sono il quadro e le prospettive del regionalismo italiano, e più in generale lo stato del decentramento politico e amministrativo nel nostro paese? Si tratta di una domanda importante, che riguarda il potere e i diritti dei cittadini in Italia: i livelli di governo che hanno maggiore possibilità, per competenze e risorse economiche, di prendere le decisioni più importanti sulle grandi politiche pubbliche; e come e quanto, a seconda dell’organizzazione del potere, possono essere garantiti i diritti costituzionali dei cittadini nei diversi territori del paese. Temi con una grande valenza politica, che influenzano tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, a partire dalla scuola.
La questione è analizzata nel mio volume Contro la secessione dei ricchi, le cui tesi di fondo sono due. La prima è che il grande processo di decentramento dei poteri, in particolare a favore delle regioni – avviato in Italia negli anni Novanta e fortemente consolidato dalla riforma costituzionale del 2001 – ha determinato un quadro assai insoddisfacente, ricco di conflitti e di problemi, che merita senz’altro una paziente e incisiva azione di miglioramento e di riforma, senza eccessivi sbandamenti nelle opposte direzioni di un maggiore accentramento o di un ulteriore decentramento dei poteri.
La seconda tesi è che il dibattito politico degli ultimi anni non è orientato a risolvere questi problemi, ma a crearne di nuovi, gravi. È incentrato sulle richieste di decentramento asimmetrico e di maggiori poteri e maggiori risorse, ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione.:
Il regionalismo differenziato, per come sono state concretamente formulate le richieste prima da tre regioni e poi da altre, è un processo da evitare perchè peggiorerebbe la situazione d’insieme, concentrerebbe troppo potere nelle mani di pochi presidenti di regione e renderebbe ancora più difficile garantire i diritti civili e sociali a tutti i cittadini. Dunque, avrebbe conseguenze negative sull’intero paese e sui suoi cittadini anche per molti versi, quelli delle stesse regioni che desiderano nuove competenze. Non si tratta infatti di decentramento, bensì di una sostanziale “secessione dei ricchi”.
Con “secessione dei ricchi” si definisce il processo che si avvierebbe con la concessione alle regioni delle nuove competenze così come richieste. La parola “secessione” è usata per richiamare una separazione che, seppure non di diritto, sarebbe nei fatti. Le regioni dotate di maggiori autonomie si configurerebbero infatti come delle regioni-Stato, seppur formalmente ancora dentro la cornice nazionale. Esse godrebbero di poteri estesissimi e delle risorse per esercitarli, anche se in modo differenziato fra di loro. Parallelamente, si avrebbe un depauperamento della capacità del governo e del Parlamento italiano di affrontare questioni vitali con le politiche pubbliche ritenute più opportune. Ad essi rimarrebbero ritagli di competenze per ritagli di territori: l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco, confuso, inefficiente.
La secessione è dei ricchi in due sensi. In senso geografico, perché le nuove regioni-Stato includerebbero inizialmente quelle più ricche, che hanno avviato il processo, con una cesura rispetto al resto del paese. All’obiezione che già oggi le disparità territoriali sono significative è facile replicare: esse sono un dato di fatto che, a norma della Costituzione, si cerca di contrastare; con l’autonomia regionale differenziata diverrebbero disparità previste dalle norme. Lo è in senso economico-sociale, poiché il processo è spinto dal desiderio degli amministratori di queste comunità di poter disporre di una parte del gettito delle tasse pagate nelle loro regioni superiore a quanto oggi lo Stato spende nei loro territori. Risorse che, a norma di Costituzione, devono essere utilizzate per fornire essenziali servizi pubblici, e quindi garantire diritti di cittadinanza, a tutti gli italiani, indipendentemente dal luogo in cui vivono. In Italia vigerebbe una sorta di ius domicilii, che lega i diritti alla residenza.
Per argomentare queste conclusioni è utile, in primo luogo, una comparazione internazionale: la realtà dei paesi europei è profondamente diversa. Negli ultimi decenni è generalmente cresciuto il grado di decentramento, anche se esso continua a presentare grandi differenze fra paesi come Germania e Spagna, da un lato, e Francia, dall’altro. Non è possibile individuare un livello ottimale di trasferimento di poteri dallo Stato nazionale verso regioni ed enti locali: vi sono, in teoria e nell’esperienza internazionale, vantaggi e svantaggi di cui bisogna tenere attentamente conto. Vi sono poi esperienze di decentramento asimmetrico, cioè di poteri diversi attribuiti a enti dello stesso livello di governo, e anch’esse sono in aumento. Tuttavia, riguardano principalmente il governo delle città e non le regioni. Il caso spagnolo è di particolare interesse, soprattutto perché in quel paese vi è un decentramento asimmetrico dei poteri e dei meccanismi finanziari delle comunità autonome (assimilabili alle regioni italiane); ma proprio le vicende spagnole del XXI secolo mostrano i rilevanti rischi di conflitto associati a queste asimmetrie. L’Europa ha visto vere e proprie secessioni: ma attualmente, nei paesi membri dell’UE, sono assai più interessanti le dinamiche che possono portare a “secessioni di fatto” per cui l’unità nazionale è modificata sostanzialmente anche se non formalmente.
In Italia il ruolo degli enti locali e in particolare delle regioni è fortemente cresciuto dopo la riforma costituzionale del 2001. Ma l’assetto che ne è scaturito è largamente insoddisfacente. Il quadro dei poteri è confuso e conflittuale; nei primi venti anni del secolo, il livello di governo nazionale si è indebolito e si è fortemente accresciuto il ruolo delle regioni e dei loro presidenti, con atteggiamenti di “sovranismo regionale” volti ad accrescere il loro potere e la loro capacità di intermediare risorse pubbliche. Province e aree metropolitane sono in una situazione di grande incertezza, mentre i comuni – storicamente perno del governo locale in Italia e più vicini ai cittadini – sono schiacciati dalla carenza di risorse e dal controllo che le regioni esercitano su di loro. Per di più le autonomie speciali esistenti determinano rilevanti, ingiustificate iniquità. In questo quadro i cittadini non hanno la possibilità di conoscere e giudicare ciò che i loro amministratori fanno, e il livello centrale non interviene per garantire i loro diritti, come è evidente nel caso della sanità. Tuttavia, alla fine degli anni Venti la pandemia Covid ha tragicamente mostrato i costi di questa situazione, e la più importante iniziativa di politica economica, il Pnrr, ha visto una forte centralizzazione del potere nell’esecutivo nazionale.
Gli aspetti economici dell’attuale decentramento italiano sono definiti dalla legge 42 del 2009 – che mira ad attuare i nuovi articoli della Costituzione relativi al finanziamento di regioni ed enti locali –, inclusi i capisaldi dell’intero meccanismo: i livelli essenziali delle prestazioni, cioè il nucleo dei diritti sociali e civili da definire e garantire a tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale; e i fondi perequativi, volti a determinare parità nei finanziamenti a realtà amministrative operanti in territori con diversa ricchezza. Ma la legge ha fatto pochissimi passi in avanti. Quasi nessuno per quanto riguarda le regioni, anche considerando che il finanziamento della loro principale voce di bilancio, e cioè la sanità, non tiene conto dei fabbisogni di salute della popolazione: in sanità i livelli essenziali di assistenza esistono da molto tempo, ma sono irrilevanti per determinare fabbisogni e finanziamenti.
Per quanto riguarda i comuni, invece, la legge 42 è stata estesamente applicata, anche grazie a un importante sforzo tecnico. Ma a lungo in modo distorto: in assenza dei Lep, i fabbisogni sono stati rapportati alla spesa storica; il fondo di solidarietà comunale procede con tempistiche assai lente, e dovrebbe andare a regime solo trent’anni dopo la riforma costituzionale. In questo quadro, tuttavia, vi sono anche esempi positivi: è il caso del Lep relativo ai nidi fissato nel 2022, e accompagnato da finanziamenti aggiuntivi per consentire a tutti i comuni di realizzarlo. Vicenda che mostra come siano necessari una volontà politica determinata e un attento disegno tecnico per procedere verso una maggiore uguaglianza fra i cittadini.
Ma questi temi non sono sull’agenda politica. Dominano le vicende dell’autonomia differenziata, che fu originata dalle richieste delle giunte regionali di Veneto e Lombardia di acquisire tutte le competenze possibili mantenendo nel loro territorio una parte di quello che definiscono il loro residuo fiscale; e che ha preso slancio quando l’Emilia-Romagna guidata dal Partito democratico, avanzò analoghe richieste. A inizio 2018 il governo Gentiloni ha siglato Pre-Intese dai contenuti estremamente discutibili con le tre regioni. Il successivo governo Lega-Movimento 5 Stelle è arrivato davvero a un passo dal concedere tutti i poteri e i privilegi finanziari richiesti, frenato solo da una riconsiderazione del tema da parte dei 5 Stelle. Uscita dalle priorità nel periodo del Covid, l’autonomia regionale differenziata è tornata in primo piano nel 2022 con il governo Meloni, che ha fatto propria una legge-quadro proposta dal ministro leghista Calderoli per favorire il più possibile le richieste regionali.
Perché è una secessione dei ricchi? L’Italia sarebbe radicalmente trasformata con la nascita di regioni-Stato al suo interno. Esse, infatti, godrebbero di poteri estesissimi in materie fondamentali, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’ambiente, alle politiche industriali e in molti altri ambiti, come è dettagliatamente ricostruito nel volume. Avrebbero fine la scuola pubblica italiana, il Servizio sanitario nazionale, il sistema unitario delle infrastrutture e dell’energia. Il tutto in un quadro di estrema confusione, dato che le competenze richieste dalle regioni – a cui è assai probabile che si affianchino subito tutte le altre a statuto ordinario – sarebbero comunque differenziate fra loro. Il governo centrale avrebbe poteri residuali, e competenze su ritagli geografici. L’Italia diverrebbe un paese arlecchino, nel quale sarebbe impossibile condurre fondamentali politiche nazionali, anche nel solco di quelle europee; e nel quale il sistema delle imprese andrebbe incontro a crescenti difficoltà per la frammentazione legislativa e operativa che si potrebbe creare in molti mercati, dall’edilizia ai prodotti alimentari.
Ma la secessione dei ricchi si verificherebbe anche per gli aspetti economici. Le regioni richiedenti mirano infatti a ottenere condizioni vantaggiose del tutto assimilabili a quelle delle autonomie speciali. Veneto e Lombardia hanno da sempre chiaramente collegato le richieste di autonomia al desiderio di trattenere per sé una parte del cosiddetto residuo fiscale regionale, cioè di un ipotetico ammontare pari alla differenza fra il gettito fiscale e la spesa pubblica che hanno luogo nei loro confini. Si tratta dei “soldi del Nord” della tradizione leghista: un calcolo fuorviante, che non tiene conto delle disposizioni costituzionali relative alla progressività del prelievo fiscale e all’universalità dell’accesso dei cittadini ai servizi pubblici: i residui fiscali fanno capo agli individui, non ai territori.
Lo strumento per ottenerlo è complesso tecnicamente, ma chiaro politicamente: la previsione di un’aliquota di compartecipazione al gettito dei tributi nazionali, che consentirebbe alle regioni di godere di risorse garantite senza dover tassare i propri cittadini. Risorse che con il tempo potrebbero crescere, a danno degli altri italiani. E nulla si sa circa altri possibili effetti finanziari a loro vantaggio, ad esempio connessi al trasferimento gratuito di parti del patrimonio pubblico nazionale. A poco vale l’enfasi comunicativa sulla contemporanea determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep): a parte le difficoltà tecniche, fissarli senza garantire risorse aggiuntive molto ampie significa cristallizzare le disparità esistenti.
I ministri leghisti a cui è stata affidata la questione – prima nel governo Conte I, poi nel governo Meloni – hanno cercato di prevedere modalità procedimentali per arrivare all’autonomia differenziata, le più favorevoli possibili per le regioni. Sono basate sulla centralità della trattativa fra gli esecutivi nazionale e regionale, sulla marginalizzazione del ruolo del Parlamento, cui sarebbero affidati compiti di mera testimonianza, sulla massima segretezza possibile sugli specifici contenuti delle Intese Stato-regioni, da tenere accuratamente al riparo dall’attenzione dell’opinione pubblica, sul trasferimento delle fondamentali scelte di dettaglio a commissioni paritetiche, sempre Stato-regioni, con decisioni anch’esse al riparo dall’intervento del Parlamento e della Corte costituzionale. Il disegno di legge governativo che mira a questi risultati è attualmente (ottobre 2023) in discussione in Senato.
L’Italia ha bisogno di un paziente processo di riscrittura dei suoi assetti decentrati, senza nostalgie centralistiche o fughe in avanti. Le richieste di maggiore autonomia così come presentate dalle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna dovrebbero essere respinte; l’articolo 117 della Costituzione rivisto, il terzo comma dell’articolo 116 eliminato, o quantomeno radicalmente trasformato (come proposto da una legge di iniziativa popolare promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, pure attualmente in discussione in Senato). Ne va del futuro dell’Italia nei prossimi decenni.
fonte: https://eticaeconomia.it/il-pericolo-della-secessione-dei-ricchi/ *
* Questo testo è una rielaborazione dell’Introduzione a “Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale” (Laterza 2023). Viene contemporaneamente pubblicato anche su “Sbilanciamoci”