Pietro Pellegrini, Direttore Dipartimento Salute Mentale Parma, torna sul tema dell’imputabilità dei folli rei per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 4 ottobre 2023.
Il 9 gennaio 2023 a Pisa un giovane studente universitario, dopo essere stato accompagnato dal padre ad una visita psichiatrica in ambito privato dalla quale pare volesse fuggire, incontra e colpisce uno sconosciuto, un anziano medico che qualche giorno dopo muore per gli esiti dell’aggressione.
Nei giorni scorsi, visto che la perizia ha stabilito la totale incapacità di intendere e volere, il giovane è stato assolto. Tuttavia il riconoscimento della pericolosità sociale ha portato all’applicazione della misura di sicurezza detentiva del “ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario” cioè in una REMS per 10 anni.
Di fronte a reati commessi “sine causa” o per motivi banali ricercare la risposta nel disturbo mentale è rassicurante e al tempo stesso fuorviante. Rassicurante perché dà una spiegazione e delinea un percorso, per altro sulle stesse orme dell’OPG e non sulla base della cultura della legge 81/2014 per cui l’utilizzo delle REMS dovrebbe essere residuale, un’extrema ratio per assicurare le cure e far fronte ad una pericolosità sociale altrimenti non diversamente affrontabile. Quindi non un luogo dove portare a termine una misura di sicurezza detentiva per 10 o addirittura 30 anni. Pur tenendo conto delle periodiche revisioni della magistratura di sorveglianza vige la logica rigida dell’internamento che è di durata incerta e rischia di essere protratta “sine die”.
L’aspetto fuorviante dell’assoluzione è di far venire meno il senso di responsabilità. Ciò non è utile alla persona con disturbi mentali e, sul piano sociale, rischia di alimentare da un lato lo stigma verso i malati ritenuti pericolosi e imprevedibili e dall’altro crea senso di impunità, di minimizzazione della consapevolezza della gravità e delle conseguenze dei propri agiti. Si tratta di riconoscere a tutte le persone il diritto ad essere degni della parola della legge intesa anche come pena, come condanna di una condotta antisociale, riprovevole. Una pena di durata definita, con la possibilità di cura nel luogo più adatto, anche alternativo al carcere è certamente una soluzione più chiara e preferibile.
Invece l’attuale normativa si presta ad un uso opportunistico della infermità mentale, come una via per evitare i processi e le condanne utilizzando così del tutto impropriamente le REMS. Per non parlare della qualità delle perizie e delle differenze di decisione tra casi simili.
Diversamente, ad avere ucciso non è la persona ma un “disturbo” forse non ben curato (?) sospetterà qualcuno, chiamando magari in causa lo psichiatra per l’anacronistica “posizione di garanzia”? La psichiatria viene delegata in toto e chiamata all’impossibile compito di curare e custodire insieme, di prevedere e prevenire. La cura della psicopatologia, può realizzarsi nella relazione attraverso il consenso (“nulla su di me senza di me”) come prevede la legge 180.
La proposta di legge depositata alla Camera dei deputati (n. 1119/2023) da Riccardo Magi abolisce il doppio binario e può rifondare su basi nuove il “patto sociale”, la giustizia e la cura delle persone con disturbi mentali, con la possibilità di misure alternative alla detenzione.
Per l’atto commesso tutte le persone devono avere il diritto al processo e, se colpevoli devono essere condannate a una pena ai sensi dell’art 27 della Costituzione. La persona con disturbi mentali ha bisogno di una legge che dialoga, giudica e stabilisce la durata e le modalità di esecuzione della pena ma lascia alla psichiatria le cura e la sede migliore ove effettuarla. Non giova un proscioglimento incomprensibile per un fatto che rimane molto presente nel mondo interno della persona che è sempre molto di più della sua malattia e del reato. La responsabilità è terapeutica e la cura richiede chiarezza, fiducia, speranza, possibilità di elaborazione e riparazione.