Su Scienza in rete abbiamo recentemente parlato tanto degli impatti che il turismo ha sull’ambiente quanto delle soluzioni da mettere in campo per ridurli. Se un’attività economica, corresponsabile dell’innalzamento delle temperature e di consumo eccessivo di risorse, mette a rischio la sua stessa sopravvivenza, dovrebbe senza ombra di dubbio cambiare sé stessa. Il turismo deve anzitutto fare questo: ripensare il modo in cui far gustare alle persone le ricchezze dei territori, senza spremerli fino a esaurimento. E, laddove è indispensabile considerare dei limiti da non superare, un buon turismo può trasformarli in opportunità. Per esempio, l’Alto Adige ha fissato un numero massimo di posti letto affittabili in ogni comune.
Il caso più emblematico è probabilmente la fruizione delle aree protette. In questo articolo ne facciamo una rassegna per mostrare quanto siano tesori al contempo da proteggere e da valorizzare.
La biodiversità come ricchezza
Il risultato più importante raggiunto alla COP15 dello scorso autunno sulla biodiversità è stato forse quello che fissa al 30% la quota di superficie terrestre, mari e acque interne da proteggere entro il 2030 (Laura Scillitani ne ha parlato diffusamente per Scienza in rete). Oggi è protetto quasi il 16,6% delle terre e delle acque interne e il 7,7% dei mari. Su questo tema, a Climate Media Center Italia, Lorenzo Peruzzi (Università di Pisa) ha dichiarato che non bisogna «adagiarsi solo sul racconto mediatico dei “miliardi di alberi” da piantare, che nell’ottica della conservazione della biodiversità non servono praticamente a niente», ma che serve puntare sulle aree protette. Esse «rappresentano l’unica via per porre un freno alla enorme perdita di biodiversità che stiamo osservando, che non riguarda solo grandi mammiferi o comunque organismi a noi più affini, ma anche piante, funghi, invertebrati e microorganismi. Boschi e praterie naturali, inoltre, possono efficacemente contrastare anche il cambiamento climatico».
Proteggere la biodiversità non è una misura fine a sé stessa, ma una necessità per l’essere umano. I servizi ecosistemici che essa fornisce sono infatti per noi indispensabili. Parliamo di produzione di nutrienti biochimici di vario genere, produzione di cibo, acqua, risorse naturali, ma anche di cicli biologici che servono a depurare l’acqua e a regolare il clima, fino al valore estetico stesso che la natura detiene a fini culturali.
Uno strumento europeo di riconoscimento può certamente essere la Carta Europea del Turismo Sostenibile (CETS). La CETS è un «metodo di governance partecipata per promuovere il turismo sostenibile e strutturare le attività delle aree protette in ambito turistico e per favorire, attraverso una maggiore integrazione e collaborazione con tutti i soggetti interessati, compresi gli operatori turistici locali, l’elaborazione di un’offerta di turismo compatibile con le esigenze di tutela della biodiversità nelle Aree protette», spiega Federparchi, la sezione italiana di Europarc che si occupa di rilasciare la certificazione. Le aree protette devono dotarsi di un piano d’azione di turismo sostenibile che coinvolga i governi locali, le imprese, gli operatori, le ONG e tutti gli attori del settore. In questo link è possibile visionare l’elenco delle 92 destinazioni classificate come “sostenibili”, che dalla nascita nel 2001 sono in continua crescita. È evidente quanto questo numero possa e debba aumentare ancora molto.
Le aree protette secondo l’Unione internazionale per la conservazione della natura
Il riconoscimento globale per le aree protette è fornito dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), che identifica tipologie diverse di protezione a seconda dell’area e della fruizione della stessa. Si possono trovare aree protette dove si monitora lo stato della biodiversità, dove si proteggono habitat o specie a rischio o in pericolo, dove si organizzano attività turistiche in modo sostenibile, dove si svolge ricerca scientifica, e così via. Non sono molte le aree protette riconosciute dalla IUCN: 59 siti totali appartenenti alla “Lista Verde”. Gli stati possono candidare le proprie aree protette (come parchi nazionali, riserve, ecc.) per provare a ottenere il riconoscimento IUCN. In Italia abbiamo tre parchi appartenenti alla Lista: il Parco Nazionale del Gran Paradiso, il Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna. Anche in questo caso, è evidente come si possa fare molto di più.
La rete europea “Natura 2000”
L’Unione Europea ha stabilito una sua rete interna di protezione di aree terrestri o marine, che possono o meno coincidere (o candidarsi) con le aree protette IUCN: la rete Natura 2000. Queste rappresentano una risorsa dall’enorme valore, con più di un milione e 200mila chilometri quadrati di superficie che sono il 18,6% delle terre e il 9% dei mari. Secondo la Commissione europea, i siti protetti marini dovrebbero aumentare maggiormente la loro estensione, soprattutto nelle zone offshore. Per colpa della Brexit, dal 2020 i siti hanno subito un calo, ritornando ai livelli del 2015 circa.
I siti della rete Natura 2000 sono identificati dalle direttive Habitat e Uccelli, a seconda dell’interesse suscitato: ci possono essere habitat o specie a rischio di estinzione, rare, vulnerabili, in pericolo o endemiche, con diversi gradi di protezione. La prima direttiva indica i Siti di interesse comunitario e le Zone speciali di conservazione, la seconda indica le Zone di protezione speciali.
I divieti forse più stringenti sono in ultima istanza norme di buon senso, che sono tutto fuorché limitazioni allo sviluppo economico e turistico. Infatti, non si possono catturare o uccidere specie protette, distruggere o raccogliere uova e nidi, estirpare piante protette, distruggere siti di riproduzione e riposo, disturbare le specie in riproduzione, allevamento, ibernazione e migrazione, vendere esemplari prelevati dai siti. Ogni paese membro, a seconda dei casi, gestisce al meglio i propri siti con ulteriori misure.
Fonte: Commissione europea
Parchi e riserve in Italia
In Italia, abbiamo più di 2600 siti Natura 2000, molti dei quali anche piccolissimi. Alcuni possono coincidere o intrecciarsi con le aree protette istituite a livello nazionale. In particolare, queste ultime possono essere Parchi nazionali, regionali e interregionali, Aree marine protette, Riserve statali e regionali, Riserve biosfera Man and the biosphere, Geoparchi UNESCO e altre aree protette.
La totalità italiana delle aree protette terrestri rappresenta il 21,7% del territorio, per quanto riguarda le aree marine protette scendiamo a un 10,6% (dati 2022).
Quello che si può o non si può fare dipende dalle misure pensate per ogni singolo parco, riserva o area. In generale, le disposizioni riguardano la conduzione di animali domestici, i falò, il campeggiamento, la riproduzione di suoni, l’avvicinamento alla fauna locale. Ognuno diversamente regolamentato a seconda del grado di protezione e fruizione (non sono due aspetti sempre in contrasto) che si vuole dare.
Per esempio, nel parco nazionale più antico d’Italia, quello del Gran Paradiso, è necessario riportare a valle i rifiuti, non raccogliere piante, minerali e insetti, che sono essenziali per l’ambiente in cui si trovano, piantare tende e accendere fuochi solo nelle aree autorizzate, lasciare in pace gli animali selvatici, non introdurre cani tranne in zone specificate. Queste e altre misure servono per garantire che nel parco si preservi lo stato di conservazione attuale e far sì che tutti possano goderne. Tra le altre cose, camminare fuori dai sentieri ufficiali infatti provoca solchi dove la pioggia si incanala ed erode il terreno. Introdurre animali domestici disturba la fauna locale con gli odori anche degli escrementi eventuali e può finanche causare la morte degli animali selvatici (come purtroppo accade spesso, nonostante il guinzaglio).
Nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini sono previste norme analoghe. Vengono per esempio identificate anche delle aree critiche, anche a causa dei flussi turistici elevati. All’interno di queste sono previste specifiche disposizioni, come il divieto di riproduzione di schiamazzi, la possibilità di accedere in specifiche zone solo in determinati periodi dell’anno (visto il programma di reintroduzione del camoscio appenninico). Nei Laghi di Pilato è vietato entrare o berne l’acqua: si tratta di un ecosistema delicatissimo che ospita una specie endemica di crostaceo, il chirocefalo del Marchesoni, per altro sotto stress a causa del riscaldamento globale (qui la zonazione).
Le aree marine protette
Particolare interesse suscitano i metodi di protezione delle aree marine, visto che sono in Europa e nel mondo meno protette rispetto ai siti su terra. Si pensi che solo 3,7% delle aree marine protette italiane fa parte di Natura 2000, pur essendo cresciute dell’80% tra il 2019 e il 2020, secondo quando riportato da Openpolis. Come per i parchi, le riserve e le altre aree protette, infatti, sono istituite a livello nazionale ed eventualmente possono o meno far parte della rete europea Natura 2000 e della Lista Verde della IUCN. Considerando solo le coste, quelle protette da aree marine sono quasi il 16% (dati ISPRA 2019). In totale in Italia abbiamo 29 aree marine protette (2 parchi sommersi e un santuario internazionale).
Le misure di protezione dipendono dal tipo di zona istituita, che può essere A, B, C e D. La zona A è molto ridotta spazialmente, è riservata quasi unicamente alla ricerca scientifica ed è chiusa a quasi tutte le attività. Nelle zone B e C, di estensione via via maggiore, sono consentite le attività con un impatto rispettivamente più basso possibile e moderato. Le zone D sono quasi senza divieti e servono più che altro per un passaggio graduale dall’area marina protetta all’esterno.
Quello che non si può fare, anche in questo caso, è quasi tutto buon senso: non si possono catturare o danneggiare gli animali e i vegetali, asportare minerali e reperti archeologici, alterare la biochimica dell’ambiente marino, introdurre armi ed esplosivi, e scaricare rifiuti. Nelle zone B è vietato entrare con barche a motore (se non a bassa velocità) – così come nelle zone C, anche se con più tolleranza. Per altro, dal momento che le aree marine protette sono generalmente lungo la costa, evitare il motore all’interno di zone limitate riduce il rischio di incidenti con i bagnanti e il livello degli inquinanti in acqua e aria. La balneazione, per l’appunto, è sempre consentita (nonostante alcune amministrazioni locali dicono il contrario) tranne in zona A (quasi sempre).
Attenzione a non confondere le aree marine protette con le zone di tutela biologica, spesso portate ad alternativa da alcune amministrazioni. La zona di tutela biologica infatti non serve a tutelare la biodiversità locale, ma a monitorare lo stato di specifici stock ittici a fini commerciali, e sono per lo più posizionate in mare aperto, non lungo la costa. Per di più, queste non sono sotto il controllo dei Comuni (o dei Parchi dove presenti) come le aree marine protette, ma del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, risultando quindi meno partecipate dalle comunità locali.
Tra le attività vietate nelle aree marine protette c’è la famigerata pesca a strascico sotto costa, che danneggia gravemente senza farsi troppi problemi il fondale marino. Per altro cattura anche esemplari non commercializzabili che poi vengono scartati. Una buona pratica in questo senso è il posizionamento di dissuasori di cemento sul fondale che impedisce lo strascico, come è stato fatto nell’area marina protetta delle Isole Egadi, che ha fatto diminuire quasi totalmente gli ingressi e la pesca illegale nella zona C.
Le aree marine protette, tra l’altro, sono un aiuto per il sequestro del carbonio, risultando ottime alleate anche per ridurre gli impatti del cambiamento climatico. Ecco perché questo strumento di protezione degli ecosistemi marini è sempre più integrato negli obiettivi climatici sotto la Convenzione quadro sul clima delle Nazioni Unite.
l’Autore Jacopo Mengarelli
Di Sirolo, provincia di Ancona. Dopo il diploma di liceo scientifico si laurea in Pianoforte e in Fisica presso il Conservatorio e l’Università di Trento. Ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza e dell’Innovazione Sostenibile (MaCSIS) all’Università Milano-Bicocca. Ora è nella redazione di Scienza in rete e collabora con l’agenzia di comunicazione Zadig Srl. È tra i fondatori dell’associazione Climate Media Center Italia. Ha lavorato al progetto “Ok!Clima: il clima si tocca con mano”, per corsi di formazione rivolti a giornalisti, ricercatori e docenti. Si è occupato della promozione e del sito del progetto CISAS: Centro internazionale di studi avanzati su ambiente, ecosistema e salute umana. Ha scritto per Domani e Wired. Studia direzione d’orchestra.