Marco Perduca scrive sul rapporto tra proibizionismo e conflitti per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto del 20 settembre 2023
L’ultimo World Drug Report delle Nazioni Unite segnala che «economie basate sul traffico di stupefacenti illeciti possono prosperare in situazioni di conflitto o dove lo stato di diritto è debole» concorrendo a «prolungare o alimentare» i combattimenti. Non è una novità bensì, in tempi in cui la presenza di “droghe” illegali non accenna a diminuire e tornano guerre civili e di aggressione, la conferma che la proibizione è un elemento strutturale o con-causa di crimini. Se non crimine essa stessa.
Le sostanze psicoattive in zone di conflitto rappresentano anche un sostituto di assistenze sanitarie – già spesso precarie – per la gestione dei traumi o per sopportare le condizioni in cui si è costretti a vivere: alla mercé del caos, di regimi o bande criminali o fuggendo in cerca di rifugio.
Conflitti armati interni e internazionali sono recentemente tornati in Sudan, Ucraina, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Madagascar, Somalia e Yemen; colpi di stato hanno interessato Mali, Burkina Faso, Guinea Conakry e Niger: L’“incertezza del diritto” caratterizza, tra gli altri, Siria, Libia, Iraq e Afghanistan. Regimi autoritari si sono consolidati in Tunisia, Salvador, Filippine, Corea del Nord e Iran. Milizie paramilitari hanno formalmente soppiantato i meccanismi di protezione, seminando il terrore e concorrendo alla gestione criminale di stupefacenti, armi ed esseri umani.
Fino all’imposizione del recente bando talebano, la cui efficacia resta da verificare, quasi tutta la fornitura mondiale di eroina proveniva dall’Afghanistan, zona “instabile” per antonomasia e confinante con importanti mercati. Anche altri conflitti armati interni in regioni produttrici sono stati alimentati per decenni dalle sostanze proibite: in Colombia, dove la cocaina era una risorsa per l’insurrezione militare delle FARC e le altre formazioni paramilitari (anche filo-governative), o in Myanmar dove l’oppio ha finanziato la guerra civile lasciando un’eredità di caos e criminalità in particolare nelle terre degli Shan al confine con la Cina.
Quando i conflitti riguardano aree con dimensioni considerevoli, come Ucraina o Sudan, si nota anche l’aumento di produzione, traffico e uso interno di stupefacenti con raffinazioni di nuove sostanze psicoattive che la fanno da padrone. Quando i combattimenti riguardano aree di transito, la pericolosità dei commerci fa spostare le vie del traffico altrove: in particolare verso l’Africa, zona di smistamento sud-nord di eroina e cocaina.
All’indomani del golpe in Niger, Marco Montanari ha ricordato su queste pagine d’esser stato accolto in quel paese con la battuta «Il Niger è al 90% musulmano e al 10% cocaina»; se la situazione era così nel 2015 è ragionevole ipotizzare che i controlli in un paese prevalentemente desertico, grande come la Francia, oggi siano inesistenti. I vicini occidentali del Niger, retti da giunte militari, negli anni son diventati parte integrata della catena dei traffici della cocaina andina che dal Brasile arriva in Mediterraneo attraverso i porti delle Guinee (Bissau e Conakry), proseguendo a nord attraverso i deserti burkinabé, nigerini e libici per arrivare a Gioia Tauro, Barcellona o Rotterdam. Istituzioni facilmente corruttibili, caos istituzionali, infiniti confini incontrollabili e collusioni con gruppi armati sono condizioni ideali per il prosperare di traffici illegali. L’eroina che arrivava in Europa da Asia centrale e Mar Nero adesso entra in Africa dal porto di Mombasa e, quel che non resta nella regione o parte per la penisola arabica, giunge a noi attraverso i deserti dei Sudan.
Potrebbe essere il caso di tornare a ipotizzare la criminalizzazione della proibizione perché oltre a violare i diritti umani di chi usa sostanze, sostiene e favorisce crimini di guerra e contro l’umanità.