Vincenzo Scalia scrive sul decreto Caivano e la giustizia minorile.
Era nell’aria. Dopo anni di pagine di cronache locali e nazionali infestate da notizie sulle baby gangs, seguite da proclami legge e ordine, era scontato che l’attuale maggioranza intervenisse sui minori. Innanzitutto, la sfera penale minorile, ha sempre rappresentato un cruccio per la destra. Ricordiamo il 2004, quando l’allora Guardasigilli leghista, Roberto Castelli, propose il pacchetto di riforma della giustizia minorile, prontamente dichiarato incostituzionale e accantonato. In questi anni, però, le forze dell’attuale coalizione governativa, non hanno mai desistito, fino ad arrivare a questo decreto, che chiude il cerchio. Il decreto Caivano, rappresenta l’epifania della versione 2.0 della triade Dio, Patria e Famiglia, mostrando la sua pregnanza e arroganza propagandistico-ideologica. Il DASPO ai quattordicenni, il sequestro dei cellulari, l’ammonimento ai dodicenni, la multa e il carcere per i genitori che non mandano i figli a scuola, altro non sono che la riproposizione di una concezione punitiva vecchio stampo, tinteggiato con l’early intervention inglese introdotto da Tony Blair nel 1998. C’è voluta la visita a Caivano, ovvero una delle presunte Gomorre italiane, con tanto di benedizione del prete anti-camorra di turno. Un decreto che si connota come una sorta di manuale Cencelli della tolleranza zero: securitarismo leghista in salsa fratellitalica, con un pizzico di paternalismo di cattolicesimo tradizionalista che gli conferisce il sapore finale. Si vogliono aumentare le pene di lieve entità per il consumo della canapa. Eppure, altre realtà, come gli USA, hanno legalizzato la cannabis in 21 stati.
La giustizia minorile italiana, si pone in controtendenza rispetto all’ondata di populismo penale che ha egemonizzato, negli ultimi trent’anni, l’agenda pubblica. Il doli incapax italiano, vale a dire l’età minima d’imputabilità dei minori, è tra le più alte d’Europa, contro gli 11 anni dell’Inghilterra, i 13 anni di Francia e Spagna e i 7 (!) dell’Irlanda. Il carcere, per i minori italiani, rappresenta una risorsa residuale. Solo 360 reclusi negli IPM (Istituti Penali Minorili), pongono l’Italia in una posizione in controtendenza rispetto al resto del Continente. Se da un lato bisognerebbe considerare le differenze tra Nord e Sud, la soglia di discriminazione di migranti e rom, se bisognerebbe considerare altresì il mutamento di scenari da quando i giovani adulti scontano la pena negli IPM, dall’altro lato è evidente che la giustizia minorile, in Italia, va in controtendenza rispetto al sistema penale adulto. Un’anomalia che, chi mostra i muscoli per bandiera, ha bisogno di cancellare.
In secondo luogo, bisogna chiedersi: chi sono i “minori”? Siamo un paese ormai endemicamente affetto dal declino della natalità, per cui, i giovani compresi nella fascia d’età tra i 14 e i 18 anni, sono una minoranza rispetto agli over 65. Questa condizione di marginalità li rende privi di potere contrattuale, quindi un bersaglio facile da colpire. Ma, soprattutto, i minori oggi sono quelli che possiamo definire come Italiani senza cittadinanza. Nati e cresciuti in Italia, ma che, per la mancanza cronica di una legge che introduca lo ius soli o lo ius scholae, sono condannati ad una marginalità che li rende invisibli (o meglio rimossi) alla società, e visibili al sistema penale. A loro bisogna aggiungere i minori non accompagnati. Sarebbero gli Italiani del futuro, ma, un bieco calcolo politico, che poggia sul securitarismo, ne fa un’articolazione della migrazione come problema di ordine pubblico. Punire i minori, quindi, significa suonare le campane a morto per ogni velleità di integrazione sociale e politica dei migranti. Eppure, perfino la Gazzetta dello Sport, che si occupa di altro, sostiene di dare la cittadinanza ai giovani nati in Italia per salvare la Nazionale.
Un governo all’altezza della Nazionale di calcio di Mancini. Da squalificare.