Adesso dobbiamo piuttosto fare i conti con la scomparsa della concezione del carcere come extrema ratio, con il prevalere incontrastato della detenzione come discarica sociale.
La tragedia dei suicidi e in particolare quelli delle due detenute a Torino hanno fatto esplodere un profluvio di commenti, in taluni casi assolutamente inadeguati, sulla condizione del carcere. Si distinguono le riflessioni di Fiandaca, Anastasia, Gonnella, Pugiotto, De Vito e Ronconi.
Anche molte visite, pur meritevoli, negli istituti in agosto hanno il sapore della stanca ripetitività, condita da denunce generiche e rituali sul sovraffollamento e da espressioni insulse tratte dal repertorio della retorica e della demagogia.
Mi è capitato molte volte di dire, a voce o in scritti, che sul carcere sappiamo tutto, almeno dal numero speciale del Ponte del 1949 e che il problema è cambiare le cose. “Non basta interpretare il mondo, bisogna cambiarlo”.
Quando mi è capitato di avere responsabilità di governo ho messo in moto azioni di riforma e insieme ad Alessandro Margara scrivemmo il nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, entrato in vigore nel 2000 e in quei cinque anni, tra il 1996 e il 2001, forse l’unica stagione coerentemente riformatrice, furono approvate leggi significative come la legge Simeone-Saraceni per eliminare disparità di classe nell’accesso a possibili misure alternative, la legge Smuraglia sul lavoro, la legge Finocchiaro per le detenute madri, la legge per l’incompatibilità con la detenzione pei i malati di Aids e altre gravi patologie.
Furono avanzate anche proposte per superare gli Opg (realizzata finalmente nel 2017 grazie al commissariamento) e per la riforma della legge Iervolino-Vassalli sulle droghe.
La Commissione Grosso elaborò il miglior testo di un nuovo Codice penale per archiviare il Codice Rocco, architrave dello stato etico del fascismo, tuttora in vigore dal 1930.
Il Piano Marshall elaborato tanti anni fa da Sergio Segio e Sergio Cusani, oltre alle proposte concrete, ebbe anche la forza e originalità di riuscire a mettere in rete e sinergia migliaia di realtà, associazioni e sindacati, consapevole che su un fronte così difficile l’ordine sparso, gli orticelli, gli editoriali dei grilli parlanti non aiutano.
Dopo di che, è cominciato il passo del gambero e si sono perse occasioni irripetibili. Tentativi positivi come la Commissione Palma che chiarì la disapplicazione del Regolamento dopo venti anni e realizzò l’eliminazione dei banconi di separazione nelle sale colloquio (erano ancora più di ottanta!), poi gli Stati Generali con il coordinamento di Glauco Giostra e infine la Commissione Ruotolo rimasero in gran parte nel regno delle buone intenzioni.
Ora con il Governo Meloni che ha come orizzonte lo stravolgimento dell’articolo 27 della Costituzione occorre una prova di verità. Siamo stati sconfitti, dove abbiamo sbagliato?
Bisogna essere seri. Nella condizione data, limitarsi a proclamare l’obiettivo dell’abolizione del carcere, non rappresenta una fuga in avanti, ma un ritrarsi dalle responsabilità.
Ho condiviso con Massimo Pavarini la riproposizione di un orizzonte abolizionista ma con la consapevolezza di non estraniarsi dalla realtà e del dichiararne il carattere di indicatore di marcia, non di astratto e imbelle “programma minimo”.
Dobbiamo piuttosto ora fare i conti con la scomparsa della concezione del carcere come extrema ratio, e con il prevalere incontrastato della detenzione come discarica sociale. L’innovazione della possibilità di concessione delle misure alternative da parte del giudice dalla cognizione, ad esempio, può favorire meno ingressi in carcere.
Oltre ai 728 detenuti al 41bis quanti sono oggi i detenuti in alta sicurezza, nelle sue varie forme? Circa 12.000? Sono numeri che spazzano via il vaniloquio (interessato) sulle necessità di nuovi istituti e sulla mancanza di personale di polizia penitenziaria.
Occorre una riflessione sulla composizione sociale dei detenuti per capire logiche e comportamenti che spingono a dipingere i reclusi come tossici e matti, proponendo soluzioni reazionarie come il ritorno ai manicomi o alle comunità terapeutiche chiuse e mettendo in discussione la competenza del diritto alla salute affidata al Servizio sanitario pubblico.
I problemi sono enormi, ancorché non nuovi. Da dove partire? Prima di tutto dalla lettura degli interrogativi che poneva Sandro Margara nel suo ultimo intervento pubblico e che vanno riproposti come la precondizione concettuale, a partire dalla domanda delle domande: perché è finita da tempo la guerra alla povertà? (Punti interrogativi, in Il carcere al tempo della crisi, Fondazione Michelucci, 2014).
Da quella consapevolezza tocca necessariamente ricominciare: il carcere è sostituto autoritario delle politiche di welfare, è campo di concentramento per i poveri, a dispetto delle retoriche sulle “culture della legalità” che hanno imperato negli ultimi decenni, sottraendo capacità di analisi e di proposta.
Poi, chiarito il contesto e lo scenario, bisogna scrivere un’agenda delle ferite aperte, a cominciare dalle previsioni non realizzate del Regolamento del 2000 che prevedeva cinque anni per la loro realizzazione: diciotto anni di ritardo costituiscono o no un reato di omissione di atti di ufficio? Sicuramente qualche azzeccagarbugli sosterrà che il termine non era perentorio ma ordinatorio, ma io affermo a chiare lettere che siamo di fronte a un crimine politico, che va immediatamente sanato.
Una citazione parziale: servizi igienico sanitari, mense e refettori, spacci per la vendita dei prodotti essenziali per abbattere il sistema dell’affidamento a imprese del malaffare il vitto e sopravvitto, locali per i previsti colloqui lunghi in attesa dell’affermazione del diritto alla affettività e sessualità.
Occorre dire alto e forte che il sovraffollamento è provocato dalla detenzione sociale: è questa che va affrontata e risolta.
In concreto, si tratta del prodotto della legge proibizionista sulle droghe, di quella sull’immigrazione, della persecuzione dei poveri. Vi sono due soluzioni, cambiare le leggi o cambiare i luoghi di esecuzione della pena utilizzando la vasta tastiera delle misure alternative e magari coordinandole e razionalizzandole. Si potrebbe cominciare con la sperimentazione della attivazione delle “Case di reinserimento sociale” per le pene sotto i dodici mesi che già riguardano settemila prigionieri, strutture di piccole dimensioni affidate alla direzione dei sindaci e alla progettazione dei servizi sociali e del volontariato. La proposta è depositata alla Camera dei deputati con il numero 1064.
Le risorse ci sono. Mi riferisco a quelle di Cassa Ammende, che vanno utilizzate non con progetti burocratici ma con affidamenti agli enti locali e al terzo settore (e magari non solo a quelli che vanno sotto il titolo-passepartout della legalità e della giustizia riparativa…). Una pratica di welfare ex post, visto l’assenza preventiva.
Un’applicazione massiccia delle misure alternative per tutti coloro che hanno un fine pena fino a tre/quattro anni per cancellare una contraddizione ingiusta di classe tra chi può usufruire di misure senza entrare in carcere o accedere alla Messa alla Prova e chi invece è destinato a stare fino all’ultimo giorno in carcere, uscendo incattivito e destinato alla recidiva quasi certa.
Per realizzare questi obiettivi minimi, occorre un movimento di pensiero e di lotta, dentro e fuori dal carcere. La riforma carceraria del 1975 si ottenne con una grande discussione pubblica e la legge Gozzini del 1986 fu discussa e in alcuni punti elaborata nelle carceri.
In questi anni si è sviluppata una rete straordinaria di associazioni del volontariato che hanno ben presente la necessità di affermare nell’istituzione totale i valori della Costituzione e il sistema dei diritti fondamentali di cittadinanza.
È ormai affermata e consolidata la diffusa presenza dei Garanti, da quello nazionale a quelli regionali e comunali. Il Collegio nazionale, presieduto da Mauro Palma con Daniela de Robert e Emilia Rossi ha rappresentato in questi sette anni un punto significativo di riferimento e la composizione del nuovo organismo costituirà un banco di prova ineludibile.
Vi sono le condizioni per decidere una strategia che deve vedere come controparte il parlamento, la magistratura, l’amministrazione penitenziaria, le regioni titolari della sanità.
Vanno individuati obiettivi puntuali previsti dalle leggi e dalle sentenze delle Corti internazionali e della Corte costituzionale attorno cui creare consenso attraverso azioni nonviolente coinvolgendo i parenti dei carcerati, associazioni, intellettuali, radio, giornali, televisioni, social.
Va individuata una modalità di intervento straordinaria; ricordo per responsabilità diretta che senza la nomina di un Commissario unico per la chiusura degli Opg non avremmo chiuso quella pagina dell’orrore.
Grazie a Sergio Segio ho recuperato la relazione introduttiva al convegno “Liberarsi dalla necessità del carcere”, il movimento fondato a Parma negli anni Ottanta da Mario Tomassini, mitico assessore della Provincia impegnato sul fronte del superamento del manicomio, da Franco Rotelli, psichiatra impegnato con Basaglia. È un testo che fornisce indicazioni ancora attuali. Va ripensata anche la logica premiale, se si vuole rafforzare autonomia e responsabilità.
Occorre ripartire con un orizzonte alto e con l’ambizione dettata dall’ottimismo della volontà anche se con la consapevolezza del pessimismo della ragione. Non è dilazionabile la revisione dell’art. 79 della Costituzione che rende assolutamente impraticabile la misura dell’amnistia e dell’indulto. Obiettivi ambiziosi ma percorribili, costruendone pazientemente le condizioni politiche e culturali, le alleanze, il progressivo consenso. Sfuggendo il massimalismo inconcludente e sterile, così come l’affiancamento complice a politiche e amministrazioni artefici dell’attuale disastro. Un disastro umanitario e culturale.
Abbiamo pagato troppi tributi al riformismo senza riforme. Ora è tempo di rivoluzione gentile e di utopia concreta.
fonte: https://www.fuoriluogo.it/01-home/primo-piano/sul-carcere-sono-troppe-ormai-le-parole-inutili/