Il Sottosegretario Mantovano, presentando la Relazione al Parlamento sulle droghe, elude con imbarazzo ogni valutazione politica sui dati riportati e inneggia alla parola magica: la prevenzione, versione sociale della guerra alla droga.
I dati, pur limitati, offrono spunti per una riflessione critica. Il consumo più diffuso sia nella popolazione generale che tra gli studenti, è quello di sostanze alcoliche anche se in contesti diversi: ricreativi per i giovani, privati per gli adulti. Un modello d’uso che interessa persone socialmente integrate, poco rischioso, tendenzialmente autoregolato, che in media non interferisce nella vita delle persone.
La sostanza illegale più diffusa si conferma la cannabis: anche in questo caso l’uso è prevalentemente sporadico o occasionale, in contesti di gruppo e ricreativi, mentre una parte limitata di persone la usa con frequenza, ma senza particolari problemi. Una sostanza normalizzata socialmente che i governi si ostinano a rendere rischiosa mantenendola nell’illegalità.
Rimane stabile tra i giovani, e limitato ai contesti ricreativi, il consumo delle altre sostanze psicoattive, con nessun particolare rischio o danno se non dovuto al mercato illegale.
Alcune novità, riguardano l’aumento dei consumi di oppioidi tra gli adulti, e di psicofarmaci tra i giovani. Sugli oppioidi non sono riportate informazioni su contesti e stili di consumo, né correlazioni con rilevazioni sui rischi o con i dati dei SerD o dei servizi di Riduzione del danno.
Rispetto agli psicofarmaci tra i giovani, emerge che in buona parte li reperiscono in famiglia. Le motivazioni indicate – performance scolastiche e stare meglio con sé stessi – pongono, prima che un allarme droghe, diversi interrogativi sul ruolo dei servizi nel dispensare farmaci e interrogano la politica su messaggi e modelli educativi centrati su valori individualistici e competitivi.
La maggior parte dei consumatori non si rivolge ai SerD e agli enti accreditati. Va ridefinito il ruolo di questi e gli obiettivi dei trattamenti su una utenza invecchiata, a rischio di istituzionalizzazione. La strada è abbandonare le etichette patologiche e adottare prospettive di empowerment e di inclusione sociale.
Spicca l’assenza della parola Riduzione del Danno, innominabile e pericolosa. C’è una rilevazione delle strutture a bassa soglia e delle unità di strada, orfane del nome. Non vengono descritte le attività né valutata l’efficacia di interventi che sono un LEA, pure inattuato, dal 2017 e che intercettano proprio quella maggioranza di persone che usano droghe e che non si rivolgono ai servizi.
I dati sulla detenzione confermano quelli del Libro Bianco sulle droghe. Il 34%, un terzo circa dei detenuti, sconta una pena in carcere per droghe. Il danno della legge penale è testimoniato da questa diffusa privazione delle libertà, alla quale si associano le decine di migliaia di sanzioni amministrative.
Nonostante i limiti e la mancanza di una valutazione dell’efficacia delle politiche sulle droghe, i dati della Relazione paradossalmente rappresentano una critica chiara alle politiche che questo governo intende perseguire. L’obiettivo di un mondo senza droghe non è stato raggiunto: anzi al contrario le droghe si sono moltiplicate.
Come per l’alcol, le persone tendono a elaborare regole informali e collettive di controllo dell’uso di sostanze illegali. Queste sono però ostacolate e rese rischiose da una legge centrata sul modello penale e patologico. È sempre più urgente un cambio delle politiche verso un governo sociale del fenomeno attraverso la decriminalizzazione del consumo di droghe e la regolazione legale della cannabis, garantendo il diritto alla salute delle persone che usano droghe ridefinendo i servizi e gli interventi nella prospettiva della promozione della salute e della Riduzione del Danno.