Più che un mercato regolato dalla legge della domanda e dell’offerta, quello della sanità privata sembra una versione estrema e stereotipica di un suq, dove ciascuno fa il prezzo che vuole. Tocca al malcapitato cliente, in questo caso un malato, se ha tempo e mezzi fare il giro da un ambulatorio, centro medico, specialista, ad un altro per confrontare i prezzi. Chiedendosi se la differenza di prezzo per la stessa prestazione, talvolta enorme, come documenta l’inchiesta pubblicata su questo giornale, risponda a una diversità di competenza e perciò meglio non fidarsi di prezzi comparativamente bassi, o invece sia del tutto arbitraria.
Un dubbio non irrilevante, trattandosi di prestazioni sanitarie dove in questione non è se si tratti di un oggetto taroccato e non dell’originale, ma se ci si può fidare o meno ad affidare la propria salute. Ma se si trattasse di (enormi) differenze dovute alla diversa affidabilità dei medici e delle strutture dovrebbero intervenire le autorità di sorveglianza – dagli ordini professionali ai Nas. Non si può giocare con la salute dei cittadini. Se, invece, l’enormità delle differenze non ha a che fare con l’affidabilità professionale si pone la questione di come regolare un mercato evidentemente selvaggio, in cui c’è chi lucra in modo assolutamente esagerato sulla impossibilità della maggioranza delle persone di avere informazioni sufficienti per comparare e valutare il costo delle prestazioni da cui dipende la salute loro o dei loro cari. Tanto più in una situazione in cui non hanno alternative, salvo quella di accettare lunghe attese nelle strutture pubbliche anche per questioni che richiedono di essere esaminate e affrontate con tempestività.
È vero che la situazione è nettamente peggiorata a seguito della pandemia Covid-19, con liste di attesa che si sono allungate e che faticano a essere riassorbite a motivo della scarsità di personale, provocando un aumento esponenziale di richieste di prestazioni private, che a loro volta hanno incoraggiato i privati a sfruttare l’opportunità, aumentando i prezzi spesso ben al di sopra dell’inflazione. Ma la pandemia e ciò che ne è seguito sono state anche la cartina di tornasole di una sanità che era già in affanno per scelte sconsiderate dei governi che si sono succedute in termini di finanziamenti, ma anche di modelli organizzativi non sempre efficienti, anche se motivati con l’etichetta dell’aziendalizzazione. La privatizzazione della sanità è in atto da diversi anni, come esito della combinazione di un disinvestimento – finanziario, ma anche rispetto alla valorizzazione del capitale umano – nella sanità pubblica e di incentivazioni a quella privata tramite convenzioni e detrazioni fiscali di vario tipo. Hanno fatto la loro parte anche i sindacati, con accordi contrattuali che prevedono forme di sanità aziendale come fringe benefit, il cui costo per l’impresa è detassato, ovvero grava sul bilancio pubblico. Poteva sembrare un buon equilibrio: chi poteva pagarsi un’assicurazione privata, o era dipendente da un’azienda che la offriva come fringe benefit, era coperto dal privato, alleggerendo così la pressione sul servizio pubblico. Ma era un equilibrio fittizio, che creava grandi ingiustizie mentre sottraeva risorse per beni e servizi destinati a tutti. Con la pandemia si è rivelato in tutta la sua fragilità. Il pubblico è sempre più in affanno e il privato sempre più costoso. Il risultato è che molti cittadini non riescono più ad accedere a cure appropriate in modo tempestivo. Perché le liste di attesa nel pubblico sono lunghe o sono chiuse. Il loro reddito, mangiato dall’inflazione, non consente loro di farsi un’assicurazione privata e non lavorano in un’azienda che la offre; ma non consente neppure di accedere al privato in caso di bisogno, possibilmente facendo prima shopping tra le diverse opzioni presenti nel suq della sanità privata. Tra le persone che faticano ad accedere a prestazioni sanitarie tempestive ci sono anche molti anziani: con pensioni modeste, specie se donne, non più coperti dalle assicurazioni aziendali (se lo erano prima di andare in pensione) e spesso esclusi dalle assicurazioni private perché il loro rischio di morbilità è troppo elevato. Proprio quando la loro salute diventa più fragile, il loro diritto alla cura diviene più debole.
In questo quadro, preoccupa che la riorganizzazione della sanità, a partire da quella territoriale con le case di comunità, sia tra gli obiettivi del Pnrr indicati dal governo come difficilmente raggiungibili, non solo per la lievitazione dei costi. La sanità pubblica era un fiore all’occhiello del welfare state italiano ed una delle poche garanzie di un diritto sociale universalistico. Prima di lasciarla diventare un servizio residuale, da cui fuggono non solo medici e infermieri in cerca di condizioni di lavoro migliori, ma anche i cittadini che possono permetterselo, occorre pensarci bene, da parte di tutti, governo e opposizione, sindacati e associazioni professionali.