Da diversi anni ormai, colossi del gas e del petrolio, case automobilistiche, industrie della moda e del beauty, multinazionali alimentari comunicano il loro impegno ecologico attraverso pubblicità di prodotti dichiarati sostenibili e rispettosi dell’ambiente. Purtroppo, in molti casi non è altro che una strategia di greenwashing, ovvero l’impiego di tecniche di comunicazione e marketing per apparire più sostenibili di quanto non si sia davvero o, peggio ancora, per distogliere l’attenzione dei consumatori dalle proprie responsabilità ecologiche e dalle conseguenze negative che alcuni loro prodotti o servizi possono avere sull’ambiente e sulla salute.
Da dove nasce il termine Greenwashing?
Greenwashing è un termine inglese che combina la parola green (verde) e washing (lavare) e sta a significare un ecologismo o ambientalismo di facciata che le aziende, organizzazioni, istituzioni adottano in modo strategico per comunicare un’immagine di sé sostenibile sotto il profilo dell’impatto ambientale.
Sebbene il dibattito che fa da sfondo al tema del greenwashing abbia origini molto antiche, la nascita del termine si fa risalire al 1986 quando l’ambientalista statunitense Jay Westerveld rintracciò nella pratica comune delle catene alberghiere di invitare i propri ospiti a ridurre il consumo di asciugamani, “una forma di appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili”. La leva dell’impatto ambientale dei frequenti lavaggi della biancheria, in realtà, osservava Westerveld, nascondeva ragioni di tipo meramente economico, data la totale assenza di altre politiche, interventi e azioni sostenibili all’interno delle strutture ricettive.
Dagli anni 90 in poi, con l’aumentare dell’attenzione da parte dei consumatori nei confronti delle tematiche ambientali e delle scelte eco sostenibili, l’utilizzo della strategia del greenwashing da parte delle aziende profit si è diffuso notevolmente. Il greenwashing si verifica per numerose ragioni, ma in generale ha una motivazione principalmente economica. L’importanza attribuita dai consumatori e investitori ai valori sostenibili delle aziende porta le stesse a cercare di ottenere un vantaggio di mercato dichiarando di essere sostenibili e attente all’ambiente.
Negli ultimi anni il fenomeno è diventato dirompente al punto da far intervenire la Commissione europea, insieme alla rete internazionale per la tutela dei consumatori (CPC Network) ad agire. È così che nel 2021 è stato condotto uno studio in cui è emerso che il 42% dei siti di vendita online riporta informazioni ambientali ingannevoli, nel 37% dei casi le informazioni date al consumatore sono generiche, e nel 59% non ci sono prove a sostegno delle dichiarazioni “green” delle aziende.
Un esempio classico di “ecologismo di facciata” si può rintracciare nel proliferare di packaging ingannevoli dei prodotti, con imballaggi di color verde, spesso raffiguranti elementi naturali (piante, foglie,..), riportanti messaggi in cui sono evidenti parole quali “bio”, “naturale”, “eco-compatibile”, che hanno l’intento di comunicare al consumatore una garanzia di sostenibilità senza un sostegno di prove che la accertino.
Cosa dice la Legge?
A livello normativo, in Italia, nel 2014 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha promosso uno strumento determinante nel contrasto al greenwashing introducendo nel proprio Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale l’articolo 12 in cui si dice che “la comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.
Le tipologie di Greenwashing
Il rapporto Greenwashing hydra pubblicato dall’organizzazione Planet Tracker, elenca sei tipologie di greenwashing messe in atto dalle aziende che vanno dall’impiego di strategie di marketing disonesto, alla dichiarazione di fantomatiche pratiche ecologiche che distraggono in realtà da politiche ambientali dannose per l’ambiente:
– Greencrowding, si basa sull’idea che nascondersi tra una “folla” di altre aziende può tenere nascosti i propri approcci dannosi per l’ambiente;
– Greenlighting, quando le aziende accendono i riflettori sulle loro caratteristiche ecologiche al fine di distogliere l’attenzione dalle attività pericolose per l’ambiente;
– Greenshifting, quando le aziende cercano di spostare la colpa verso soggetti esterni, molto spesso i consumatori che sono ritenuti i soli responsabili delle condotte non sostenibili e quindi dell’inquinamento ambientale;
– Greenlabelling, consiste nell’utilizzare un’etichettatura ecologica o ambientale dei prodotti ingannevole, fuorviante e arbitraria;
– Greenrinsing, quando le aziende cambiano regolarmente i propri obiettivi climatici e di sostenibilità prima che questi siano stati raggiunti;
– Greenhushing, quando le aziende non dichiarano o nascondono ai consumatori le proprie credenziali ambientali.
Come riconoscere il Greenwashing
Per riconoscere le pratiche di greenwashing la prima e più importante accortezza è quella di non fermarsi alla superficie delle informazioni o, peggio, all’estetica dei prodotti, ma allenarsi ad attivare uno sguardo analitico e critico.
In linea molto generale ci troviamo di fronte a strategie di greenwashing quando:
- viene evidenziata una singola caratteristica ecosostenibile di un prodotto, non specificando nulla sulla produzione nel complesso;
- le informazioni sono scarse e vaghe, ad esempio si afferma che il prodotto è verde, ma non si spiega esattamente rispetto a cosa;
- si utilizzano certificazioni “green” costruite ad hoc dalle aziende, invece di certificazioni ufficiali e accreditate da Enti e Organizzazioni autorevoli;
- si utilizzano in abbondanza elementi grafici, immagini e slogan che richiamano la natura, la sostenibilità e la tutela ambientale
L’organizzazione canadese TerraChoice nel 2010 ha elencato i “sette peccati capitali del Greenwashing”, ovvero una lista utile per riconoscere quando siamo di fronte all’utilizzo di questa strategia da parte delle aziende:
- Il peccato di omessa informazione che avviene per esempio quando su un cartellino leggiamo “50% poliestere riciclato” senza ricevere dettagli sulle caratteristiche del restante 50% del materiale di cui è composto il prodotto.
- Il peccato della mancanza di prove, ovvero attribuire caratteristiche green a un prodotto, o all’attività produttiva dell’azienda che non possono essere comprovate da informazioni di supporto facilmente accessibili o da una certificazione ufficiale e affidabile.
- Il peccato di vaghezza, cioè il fornire informazioni generiche, che richiedono una codifica e un approfondimento. (ad esempio la dicitura vaga sul packaging di un prodotto “Ingredienti naturali” senza specificare quali essi siano).
- Il peccato delle etichette false ovvero l’uso da parte dell’azienda di immagini o messaggi sul packaging dei propri prodotti che dichiarano caratteristiche e certificazioni “eco” mai ottenute e inesistenti.
- Il peccato di irrilevanza che consiste nel riportare informazioni che non hanno nulla a che vedere con l’ambiente, ma che fanno sì che il consumatore percepisca il prodotto che si trova davanti come green e sostenibile. Le informazioni fornite sono vere ma non attengono al concetto di sostenibilità ambientale (ad esempio, “senza CFC” non ha alcun significato visto che i clorofluorocarburi sono vietati dalla legge dal 1990).
- Il peccato del minore dei due mali in cui l’azienda non svolge alcuna azione specifica in favore del pianeta, ma sceglie di porre l’attenzione su quella meno dannosa tra tutte (Un esempio sono le pubblicità delle sigarette elettroniche o delle auto elettriche).
- Il peccato di dichiarare il falso. Pur essendo perseguibile legalmente, assistiamo ancora ad aziende che comunicano messaggi falsi nelle loro pubblicità o sulle loro confezioni.
Greenwashing e salute
Il greenwashing può avere senza ombra di dubbio un impatto sulla nostra salute. Enti e Organizzazioni di salute pubblica a livello internazionale hanno sposato ormai da qualche anno il cosiddetto approccio One health, che consiste nel riconoscere che la salute umana, animale e dell’ecosistema sono legate indissolubilmente e si influenzano a vicenda. È evidente, quindi, che le pratiche ecologiche di facciata, le informazioni ingannevoli e le dichiarazioni false di ecosostenibilità da parte delle aziende possano avere conseguenze sulla salute dei consumatori. Quando i prodotti che acquistiamo e che utilizziamo nella nostra alimentazione, per l’igiene e la cura del corpo, per la pulizia delle nostre case sono pubblicizzati come naturali, sicuri e “sani” nascondendo in realtà ingredienti chimici e pericolosi e processi di produzione dannosi per l’ambiente, oltre a essere ingannati a livello di marketing possiamo correre rischi per la nostra salute. Il rapporto 2010 di TerraChoice ha osservato come i detergenti, insieme ai cosmetici e ai prodotti per l’infanzia, (tra cui i giocattoli per neonati), sono particolarmente inclini al greenwashing – una situazione preoccupante, dichiara il vicepresidente dell’organizzazione Scot Case, dato che questi articoli sono “tra i prodotti più comuni utilizzati nella maggior parte delle famiglie”.
fonte: DORS a cura di E. Tosco