Parla la figlia del padre della riforma della psichiatria: «Dicono che ha chiuso i manicomi senza aprire servizi, ma doveva crearli la politica. Mi fa male chi accusa mio padre di aver negato la malattia: voleva farla uscire dai lager per curarla»
Il matto dove lo metto? Dopo il terremoto dell’Aquila, quando fra le casette della new town c’era da fare lo spazio per l’assistenza psichiatrica, a un certo punto la Protezione civile di Bertolaso si pose anche il problema di sistemare i malati di mente. E lo risolse proprio come Basaglia non avrebbe mai fatto: una bella tenda a parte, separata, ben lontana dalle altre e dove non desse fastidio… 1978-2018: tanta riforma per nulla? «Il problema oggi – dice Alberta Basaglia – non è la riforma o la controriforma, è che ogni occasione è buona per rifiutare il diverso da noi. Che sia il matto, il disabile, l’immigrato».
Professione psicologa e vicepresidente della Fondazione Basaglia, coi diversi in casa lei ci è cresciuta. Fino a scrivere un tenero romanzo, «Le nuvole di Picasso», sulla sua infanzia fra matti da slegare e signore spettinate con la sigaretta sempre accesa. Una risposta all’eterna domanda se suo papà avesse ragione: «Mi chiedono spesso se quella rivoluzione abbia vinto. Ma la legge Basaglia è stata solo l’ultimo passo: prima io ho vissuto una battaglia lunga decenni per liberare un popolo di malati che stava in camicia di forza, senza diritti (nota a margine: negli Anni 60, a Gorizia, Basaglia aveva trovato un manicomio che legava ai letti perfino gli ex deportati di Auschwitz…). Quella legge è stata come il divorzio, l’aborto, le riforme dell’epoca: ha reso chiaro che non tutti siamo uguali, ma che tutti dobbiamo avere le stesse libertà. La diversità è parte della vita e i diversi hanno diritto alla nostra stessa vita».
La 180 avrà anche salvato i matti, liberandoli. Però ha condannato le famiglie dei matti, obbligandole a riprenderseli in casa…
«Mi preoccupa che regolarmente di questa legge si parli come di Franco: o facendone un santino, o demonizzando. L’anno scorso è stato presentato un decreto che è finalmente una spiegazione su come applicarla dappertutto in maniera uniforme. Si dice sempre che la 180 ha chiuso i manicomi senza aprire ai servizi. In realtà, ha dato degli indirizzi generali: spettava poi alle Regioni applicarla, ma molte non l’hanno fatto».
Non è andato tutto liscio: il 70-80 per cento dei malati di mente oggi vive a casa o nel poco che s’è fatto per rimpiazzare i manicomi. Il 20 per cento è incurabile, spesso allo sbando. Chi ha danneggiato di più la riforma? I politici incapaci di legiferare o gli psichiatri un po’ troppo ansiosi di rimandare in famiglia i pazienti?
«Io non credo che la 180 sta stata il fallimento che molti pensano. È stato importante che si facesse. Un risultato? Nessuno oggi pensa più che debbano esistere i manicomi. E poi non è che gli psichiatri abbiano mandato per strada i malati di mente: la legge diceva di chiudere i manicomi, ma in molte parti d’Italia non si sono offerti i servizi alternativi. Per questo, il principale problema sono stati i politici».
Fu anche una legge approvata di fretta e nel caos, frutto del compromesso storico: i radicali volevano un referendum abrogativo, cinque giorni prima era stato ammazzato Moro…
«Sì, ma fu una legge studiata a lungo, coi contrappesi: istituiva l’assistenza h 24, i servizi, gli appartamenti per l’accoglienza dei malati… Dov’è stata ben applicata, a Trieste o in Emilia, ha funzionato».
Qual è la critica che la infastidisce di più?
«Che non si capisca Franco quando diceva “mettere la malattia fra parentesi”. Non significava negarla: voleva dire accettarne l’esistenza, ma metterla un attimo da parte per dire che il problema del malato non poteva essere tenuto nascosto nel manicomio. Bisognava portarlo fuori dai lager, sotto gli occhi di tutti, perché ce ne si occupasse».
Basaglia fu elogiato da Sartre («a Gorizia c’è stato un esempio di sapere pratico») e da Bobbio («l’unica vera riforma del dopoguerra»), fu sostenuto da Einaudi e da Bellocchio. Ma oggi non è un po’ dimenticato?
«Non ho la stessa sensazione. Di tutte le rivoluzioni del ’68, ormai disperse, questa è una delle poche rimaste. Fece aprire gli occhi, costrinse lo Stato a non far più finta di niente. L’Italia fu il primo Paese a imboccare questa strada, la nostra esperienza è un caso unico che il mondo ancora studia. Ci sono nazioni come gli Usa che sono agli antipodi, ma in Europa molti hanno preso esempio. Oggi la sinistra sembra vergognarsene, e in fondo nemmeno questa è una novità: ultimamente, la sinistra si vergogna un po’ di tutto…».
Ci furono anche eccessi, come quegli psichiatri democratici che consideravano il malato «un soggetto rivoluzionario»…
«Mio padre non ha mai detto certe cose. Era il primo a pensare che la malattia esiste, eccome se esiste, e che un matto non può andarsene libero. Chiedeva solo che fosse trattato come tutti i malati: perché un diabetico poteva curarsi al meglio e un matto solo al peggio?».
Quale fu l’atto più immaginifico del basaglismo?
«Marco Cavallo: nel manicomio di Trieste che si stava smantellando, una scultura di legno e cartapesta fatta da pazienti che erano dentro da anni e stavano per uscire. Il cavallo uscì in strada con loro, fu il segno della chiusura della clinica. La consegna del problema alla città, che infatti se ne fece carico. Testimoniò che non è vero che tutto resta uguale: le cose si possono cambiare, quando si vuole cambiarle».
Oggi proliferano le cliniche private, riservate ai pazienti ricchi. E lo psicofarmaco impazza. Che direbbe Basaglia?
«La distanza fra poveri e ricchi riguarda tutta la società, non solo la psichiatria. Con l’immigrazione e la crisi le differenze si notano molto di più rispetto ad allora, ed è chiaro che la diseguaglianza economica porta disagio, il disagio porta a reazioni che spesso hanno un che di patologico. Tornano tante cose, non solo l’uso sconsiderato dei farmaci. Prenda la contenzione, ricomparsa nei trattamenti sanitari obbligatori. Una cosa grave. Non si lega una persona che sta male: questo doveva essere un dato acquisito, ma non lo è più».
In questi 40 anni, chi ha raccontato meglio Basaglia?
«Una fiction Rai, C’era una volta la città dei matti, con Fabrizio Gifuni. Fatta bene, ben preparata e spiegata. Ho visto anche “La pazza gioia” di Virzì. La lettura della sofferenza mentale è in parte quella della riforma: l’amicizia fra la Ramazzotti e la Bruni Tedeschi, il rapporto fra due donne che esce dal problema matto-non-matto… Lì, c’è un bel po’ di mio papà».
FONTE: http://www.corriere.it/buone-notizie/18_aprile_30/alberta-basaglia-dubbi-legge-dove-stata-applicata-ha-funzionato-c71f4b28-4c83-11e8-99ac-c9986d6134ff.shtml