Aiutare i bambini e gli adolescenti a crescere bene. di Riccardo Lo Parrino

Il destino di un itinerario terapeutico può dipendere molto da come si svolgerà il momento in cui genitori e figli varcano per la prima volta la soglia del servizio di salute mentale. Dal modo in cui le loro ansie, i loro timori e preoccupazioni, le loro aspettative e speranze, verranno accolte.

Che senso ha studiare il dolore senza occuparsi della persona che soffre? – Kurt Baier, 1970

La vera natura di ciò che come operatori della salute mentale dell’infanzia e dell’adolescenza siamo chiamati a fare, l’ha ben sintetizzata, a mio modo di vedere, Adriano Milani Comparetti, innovatore (scomodo) e grande protagonista della medicina della seconda metà del novecento, non per caso fratello maggiore di quel Lorenzo Milani (scomodo non di meno) autore, fra l’altro, della celebre “Lettera a una professoressa” [1] e promotore della cultura dell’ “I Care“. Milani Comparetti, che ha dato un contributo preziosissimo al definitivo smantellamento, in Italia, delle istituzioni chiuse per bambini e ragazzi con “disabilità” di diversa natura e gravità, ci ha indicato con chiarezza il nostro compito:

“promuovere la salute” [2] di bambini e adolescenti attraverso la ri-attivazione di processi di sviluppo, per qualsiasi motivo, temporaneamente bloccati. In questa visione evolutiva, il baricentro dell’intervento, dal primo momento, fondamentale, dell’accoglienza, a quello della cura e poi della riabilitazione, è spostato dalla malattia alla salute.

L’intervento non consiste nel riparare parti malate (la “lesione”) o nel ripristinare funzioni inceppate (la “functio laesa”), secondo una visione meccanicistica della persona in crescita parcellizzata e fissata, o ancor più, schiacciata in una temporalità senza tempo e in una spazialità bidimensionale. L’oggetto, ma è meglio dire, il soggetto dell’intervento, non è la “malattia”, ma la persona che soffre. Trattandosi poi di persone ancora immature e intimamente connesse con la rete familiare, il soggetto al centro del nostro interesse è il bambino/adolescente nella sua interezza, complessità, specificità, originalità, unica e irripetibile, mai tuttavia isolato (“There is not such a thing as an infant”, diceva Donald W. Winnicott [3] ) ma visto sempre nella dimensione di mutue relazioni con la famiglia (genitori in primo luogo, ma anche fratelli e sorelle, nonni, etc) e con l’ambiente dove nasce, si muove, cresce, vive.

Sono le relazioni con il contesto che costituiscono la base del processo di rivitalizzazione di  risorse e potenzialità sopite. Perchè questo si possa realizzare in un servizio pubblico di salute mentale dell’età evolutiva, ritengo che il primo requisito sia l’apertura. Apertura bidirezionale, all’opposto di esclusione, isolamento, segregazione – parole che evocano un passato superato, ma in fondo non troppo lontano, e sempre potenzialmente incombente – e anche all’opposto di respingimento, allontanamento, rifiuto, espulsione. Connaturato a quello dell’apertura c’è infatti il requisito dell’accoglienza. Il destino di un itinerario terapeutico può dipendere molto da come si svolgerà il momento in cui genitori e figli varcano per la prima volta la soglia del servizio di salute mentale. Dal modo in cui le loro ansie, i loro timori e preoccupazioni, le loro aspettative e speranze, verranno appunto accolte. Accoglienza (la“xenia” -ospitalità- nell’antica Grecia era un vincolo sacro sotto la protezione di Zeus, nella cui ira incorreva chi negava l’accoglienza a chi la chiedeva), ed apertura significano atteggiamento dialogante, impegno, non sempre così semplice, a stare dentro un incontro non condizionato dalla ricerca spasmodica di una diagnosi  e di un rimedio immediati, impegno ad ascoltare attentamente, con mente libera, le persone che chiedono aiuto, e atteggiamento rispettoso. Anche l’accoglienza deve collocarsi in una dimensione evolutiva: essa non è acquisita una volta per tutte, perchè sempre nuove sono le domande poste nell’incontro di aiuto.

E ogni domanda esige una risposta, che deve essere una parola “oltre”, oltre il dolore, oltre la perdita di senso della vita, oltre la perdita della speranza. Compito gravoso da sostenere, per gli operatori della salute mentale, indubbiamente. Penso che spesso si tratti di accettare di “togliersi il camice” senza, nel contempo, rinunciare al rigore scientifico che compete a professionisti della salute. Si può aggiungere, per riprendere le parole di Daphne Economou, che “the doctor who cannot risk his own authority by being human will lose anyway.” [4] E’ così, da questo stare insieme, famiglie e operatori, che scaturisce il percorso di cura pensato per quel bambino/adolescente, nato e sviluppato per lui/lei e con lui/lei, per dare risposte, flessibilmente plasmate sui suoi specifici bisogni, alle sue domande, così varie e diversificate. Esso non può essere banalmente la risultante di singole azioni giustapposte, per quanto articolate e tecnicamente raffinate, e neppure la loro sintesi o sommatoria. Deve esse qualcosa d’altro, una realtà nuova, che tiene conto della multidimensionalità della persona, e che non è replicabile perchè nata per quel bambino/adolescente in un preciso contesto e in un preciso momento storico della sua vita, non prima nè dopo.

Uno dei compiti più difficili, sempre, ma soprattutto nei primi periodi dell’intervento, e in ogni fase di passaggio critica (ingresso al nido, ingresso o cambiamento di ordine di scuola, sviluppo puberale, prime esperienze di autonomia come le uscite senza i genitori, prime esperienze sessuali, raggiungimento della maggiore età) consiste nel sostenere l’incertezza che attraversa trasversalmente, seppure con qualità ed intensità differenti, tutti i soggetti coinvolti, operatori compresi. Incertezza con cui è necessario fare i conti anche per la scarsa definizione dei linguaggi attraverso cui la sofferenza si esprime in soggetti ancora in fase di crescita. Non si tratta solo di non formulare diagnosi affrettate, ma di fare “riflessioni diagnostiche” in una dimensione prospettica, tracciando “mappe multidimensionali” (Martinetti) [5] dinamiche che consentano di tenere conto della sofferenza soggettiva, e del suo modificarsi nel tempo, e insieme di rintracciare, in un complesso patchwork emotivo e comportamentale, spinte evolutive vivificanti.

E’ mantenere il dialogo costantemente aperto che dà la possibilità agli operatori di sostenere genitori e ragazzi/e, talvolta per molti anni, in tale defatigante incertezza. Essere insieme ai bambini/adolescenti e alle famiglie, in una posizione di rispettosa vicinanza, di ascolto costante, di apporto di competenza aperta e disponibile, assume in questo senso un particolare valore. Tale atteggiamento emotivo degli operatori ha a che fare con il prendersi cura (to care)  piuttosto che con il dare cure (to cure). Si tratta della differenza che c’è fra l’essere in presenza del bambino/adolescente/famiglia e l’essere insieme a lui/lei. Compito assai arduo, lo ribadisco (ma “occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato“, per usare le parole di Antonio Gramsci) [6], e realizzabile solo a una condizione: che l’operatore della salute mentale non si trovi solo, per problemi inerenti all’organizzazione del servizio o a causa di carenze di organico. Se ciò accade, il rischio che viene corso, molto elevato, è duplice: al massimo grado per chi confida nell’aiuto di cui assolutamente necessita, a cui ha diritto, e che non può essergli offerto, con la  conseguenza di una persistenza o di un approfondimento della sofferenza dei soggetti interessati e di un suo potenziale allargamento, a catena, ad altre persone primariamente non coinvolte (un esempio, fra i tanti, i partner di una coppia), persino nelle future generazioni; per l’operatore stesso che resta intrappolato in un groviglio in cui emozioni positive come speranza e ottimismo si intrecciano pericolosamente con senso di frustrazione ed impotenza.

Sentire di essere parte di un servizio che tiene e sostiene i suoi membri è un requisito imprescindibile perchè gli interventi siano autenticamente terapeutici. Un’équipe (o potremmo dire un servizio) è tale – per usare le parole di Bateman e Fonagy – se “lavora come un gruppo compatto che si preoccupa dei suoi membri, li protegge, li aiuta a comprendere cosa sta succedendo o è già avvenuto, quando è necessario concede una pausa a uno dei componenti, accorda del tempo per un’ulteriore formazione.” [7]

Un’ultima, importante, considerazione. Facendo un passo indietro, parlare di apertura dialogante significa riferirsi all’atteggiamento che l’intero servizio deve avere verso tutto ciò che gli è esterno. Esso deve collocarsi saldamente nel territorio secondo i principi del public health approach. Un servizio che, pur possedendo una sua coesione e coerenza interna, anche robusta, si arrocchi monoliticamente nella propria autorefenzialità, difensivamente ripiegato su se stesso, non disponibile al confronto e ad un’autentica collaborazione con altri servizi, con i medici di medicina generale, con i pediatri, in generale con la rete sociale e i contesti in cui le persone vivono, tradisce in partenza la sua missione. Se prendersi cura, ci suggerisce il filosofo Sergio Moravia [8], vuol dire anche inoltrarsi “nella dimensione contestuale ” della persona che soffre “in quanto membro di relazioni sincroniche”, un servizio siffatto sarebbe come un’isola nella corrente, approdo sicuro, forse, ma incapace di mobilizzarne le risorse e di permetterne la piena appartenenza al tessuto sociale che le è proprio.

Un servizio non dialogante sarebbe, in altre parole, un generatore di cronicità piuttosto che un promotore di salute.

Riccardo Lo Parrino. Dirigente Medico Specialista in Neuropsichiatria Infantile. UFC Salute Mentale dell’Infanzia e Adolescenza di Firenze. Azienda USL Toscana Centro

Bibliografia

[1] Milani L. Lettera a una professoressa. Libreria editrice Fiorentina. 1967

[2] Milani Comparetti A. Dalla parte del neonato: proposte per una competenza prognostica. Neuropsichiatria Infantile 175: 5-18; 1976

[3] Winnicott W. Donald. The maturational processes and the facilitating environment. Karnac Books. 1970

[4] Economou D. A concert of many voices. Learning from the family experiences. Editors Papini M et al Development, handicap,rehabilitation. Practice and theory. Excerpta medica International Congress Series 902. 1990

[5] Martinetti MG et al. Approccio evolutivo alla neuropsichiatria dll’infanzia e dell’adolescenza. SEID Editori. 2012

[6] Gramsci A. Quaderni del carcere. (a cura di Felice Platone) Einaudi. 1948-51

[7] Bateman A, Fonagy P. Il trattamento basato sulla mentalizzazione. Raffaello Cortina Editore. 2006

[8] Moravia S. L’esistenza ferita. Feltrinelli. 1999

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2023/07/aiutare-i-bambini-e-gli-adolescenti-a-crescere-bene/

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