Il Presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale interviene su l’”Avvenire”.
“Non uno di meno”: con questo slogan veniva riassunto, alcuni anni fa l’obiettivo decisivo della scuola, per indicare un processo di inclusione, di presa in carico di ogni giovane, qualunque fosse la sua situazione soggettiva, familiare o di contesto, al fine di dare a lui o a lei la possibilità della costruzione di strumenti autonomi di consapevolezza. Perché ogni singola perdita accentua il rischio di marginalizzazione, di non autonomia delle proprie scelte e anche di divenire preda di circuiti criminali.
Negli anni, però l’attenzione alla funzione dell’istruzione, quale rete essenziale nella costruzione di responsabilità ed effettiva autonomia, si è attenuata. Così come l’attenzione agli altri strumenti di regolazione sociale e agli altri ‘luoghi’ dove costruire significati personali e collettivi essenziali per ridurre le conflittualità che sempre esistono in una società complessa. Un’attenuazione che ha finito con affidare alla sola penalità una funzione regolativa: il diritto penale da strumento sussidiario è divenuto centrale, in un crescendo di richiesta di penalità come garanzia di una mai appagata sicurezza.
I luoghi di privazione della libertà e, in particolare, il carcere, sono così diventati i luoghi della sconfitta sociale perché segnano il punto di arrivo dell’incapacità del sistema nel suo complesso di risolvere altrimenti le proprie difficoltà; indicano la rinuncia a perseguire l’obiettivo del “non uno di meno” esteso ai tanti aspetti che devono comporre quel dovere di solidarietà e di rimozione degli ostacoli che limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, così come ricorda la nostra Carta.
Il carcere è divenuto in una sua consistente parte proprio il luogo della debolezza sociale, di soggettività difficili, di un insieme di persone che per vari motivi non accedono a quelle misure che il nostro ordinamento prevede, ma la cui effettività finisce con essere fortemente selettiva.
Questo è il ‘tema’ centrale di una Istituzione quale la giovane Autorità di garanzia che ha operato negli ultimi sette anni: il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Dovrà continuare a esserlo ora che si prefigura un nuovo Presidente e un nuovo Collegio.
Perché l’attenzione non può restringersi al pur doveroso monitoraggio della vita quotidiana in quei luoghi o all’intervento sulle singole situazioni soggettive e sugli aspetti organizzativi della vita interna. No, deve avere anche uno sguardo prospettico per individuare le cause del fenomeno dell’ampliamento del ricorso al chiudere, restringere, spesso al disinteressarsi di che è dentro. Deve anche esercitare un ruolo nella crescita della cultura diffusa su questi temi.
L’estensione della modalità restrittiva e spesso detentiva, infatti, non riguarda soltanto il carcere perché coinvolge tutti i diversi settori verso cui il Garante nazionale deve dirigere la propria funzione: dal carcere ai centri per migranti, ai servizi psichiatrici. Diversità tenute insieme dalla vulnerabilità intrinseca alla limitazione della propria autodeterminazione di tempi, spazi, movimenti e, quindi, dal necessario rafforzamento della tutela dei diritti; perché i diritti non si fermano ai cancelli di una struttura chiusa.
Per tutti l’attenzione non deve essere soltanto rivolta alla scrupolosa tutela dei due cardini del sistema di diritti di ogni persona, cioè la sua integrità fisica e psichica, al riparo da ogni maltrattamento intenzionale o meno, e l’altrettanto scrupolosa tutela della sua dignità.
Non solo questo, perché l’analoga attenzione va rivolta al diritto all’appartenenza al contesto sociale, al non essere percepito come ‘altro’ rispetto a esso e, simmetricamente, al dovere della collettività di riconoscere concretamente tale appartenenza. Scrisse Hannah Arendt: “non [è] la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società”.
Così in questo primo mandato – che è durato più di sette anni – il Garante nazionale ha declinato, seppure in un contesto diverso e più esteso, quel principio “non uno di meno” e così dovrà continuare a farlo. Con l’autorevolezza e l’indipendenza che una Istituzione di garanzia deve sempre avere, ma che è ancor più determinante nel contesto della privazione della libertà, laddove spesso si scontrano posizioni ideologiche diverse e sensibilità anch’esse diverse. Così è stato in questi anni divenendo anche una Istituzione di riferimento in ambito internazionale. Così dovrà saper continuare.