Elena Granaglia si confronta con la storia di Giuseppe e Nicola, raccontata nel numero 197/2023 del Menabò, da Andrea Boitani, mettendo in evidenza come la riflessione su storie e casi pratici aiuti ad affinare i principi di giustizia. In particolare, la storia di Giuseppe e Nicola permette di individuare i limiti di numerose affermazioni molto ricorrenti in tema di uguaglianza di opportunità.
Il New York Times del 6 luglio riporta una bella discussione sugli effetti della recente sentenza della Corte Costituzionale degli Stati Uniti che ha vietato ai college di quel paese di utilizzare la razza quale criterio di ammissione per contrastare le disuguaglianze di opportunità a danno degli studenti neri e latino. Fra gli interventi, vi è quello di Tomiko Brown-Nagin, Professoressa di Diritto Costituzionale alla Scuola di Legge di Harvard nonché professoressa di storia nella stessa università. Brown-Nagin, come altri commentatori, non ritiene la decisione della Corte necessariamente un passo indietro a danno dell’uguaglianza di opportunità di istruzione. A tal fine, le misure di azione positiva sono solo uno strumento, fra gli altri. Ciò che conta è la diversità del corpo studentesco. Conta non solo per la ragione ovvia, cui forse tutti penseremmo, che le abilità non sono il privilegio di una determinata razza. Dunque, la sotto-rappresentazione di una data razza nella distribuzione delle ammissioni è un campanello di allarme per l’uguaglianza di opportunità. Conta anche per una ragione che tendiamo a trascurare: solo il confronto con chi proviene da contesti diversi permette di “vedere” le effettive barriere all’uguaglianza di opportunità. Non basta, dunque, livellare il campo da gioco, aumentando la qualità delle scuole per i più svantaggiati. Svantaggiati e non svantaggiati devono crescere insieme e relazionarsi gli uni agli altri, frequentando le stesse scuole.
Brown-Nagin ricorda la sua esperienza alla scuola di legge a Yale. Ci dice (trad. mia) che “l’incontro nelle aule di persone provenienti da piccoli centri e da grandi città, da quartieri impoveriti e da ambienti ricchi, da una moltitudine di religioni, etnie e razze, costituiva di per sé un’educazione”. Ma, per favorire ancora più questa educazione, a Yale, vi era il Muro – uno spazio dove studenti e studentesse potevano scrivere le loro reazioni alle questioni dibattute in classe. Racconta Brown-Nagin, “è stato al Muro che una delle mie compagne di classe, una donna dell’Asia meridionale, si è dichiarata – in un campus ancora popolato per la maggior parte da figli e figlie di ricchi e potenti – come cresciuta con i buoni pasto e l’assistenza sociale. Il suo post è arrivato dopo una discussione in classe sulla necessità che la legge si occupi degli oneri speciali che solo ai poveri sono imposti; alcuni compagni di classe non ne erano così sicuri. Dopo tutto, questa era l’epoca in cui prevalevano gli stereotipi sulle regine dell’assistenza sociale e sui padri fannulloni. Ma la storia della mia compagna di classe sulla sua crescita in povertà – anzi, la sua stessa presenza in questo gruppo di persone scelte sulla base della loro bravura intellettuale – metteva in discussione questi atteggiamenti “. Anche Brown-Nagin utilizzò il Muro. Ci dice: “sentii il bisogno di parlare dopo una discussione in classe sulla costituzionalità dello school busing, ossia dello spostamento forzato, grazie appunto ai bus, degli studenti bianchi in scuole a alta concentrazione nera e viceversa al fine di favorire l’integrazione razziale. Era stato preso in considerazione un caso giudiziario importante che aveva praticamente eliminato il busing. Pensavo che la discussione enfatizzasse eccessivamente la nozione di innocenza dei bianchi; l’ho riportata ai diritti costituzionali degli studenti neri alle pari opportunità educative, che erano in bilico. Questo caso riguardava persone come me. L’accesso a scuole integrate razzialmente – meglio finanziate e di migliore qualità rispetto alle scuole segregate in cui erano state relegate generazioni di neri – mi aveva permesso di prosperare. E, ancora, passando a una sua lezione sui matrimoni fra persone dello stesso sesso, menziona l’intervento di “uno studente solitario che notava che molte conversazioni sui diritti degli omosessuali ignorassero le esperienze e i diritti delle persone trans e, identificando una questione legale emergente, ha incoraggiato la classe a pensare in modo più critico al genere”.
Le osservazioni di Brown-Nagin mi hanno permesso anche di capire meglio perché io abbia trovato immediatamente bella e utile la storia di Andrea Boitani su Giuseppe e Nicola. Boitani non ci presenta, ovviamente, una classe universitaria, ma contribuisce a creare lo stesso effetto delle classi auspicate da Brown-Nagin: obbliga a confrontarsi con l’eterogeneità delle vicende umane.
Non vorrei essere poco chiara. Non sto argomentando a favore della presa in considerazione dei casi pratici contro l’astrazione dei principi di giustizia. I principi di giustizia astratti sono fondamentali nel valutare le diverse situazioni. Ma i casi pratici ci aiutano a vedere possibili limiti dei principi di giustizia nonché a meglio specificarli.
Rivolgiamoci allora alla storia di Giuseppe e Nicola. Le vicende che Boitani racconta mettono in luce diversi aspetti critici della nozione oggi più diffusa di uguaglianza di opportunità che oppone la preoccupazione per l’uguaglianza di opportunità a quella per le disuguaglianze economiche e che identifica nel livellamento delle condizioni di accesso al mercato l’obiettivo principale e nell’istruzione il mezzo più importante per raggiungerlo.
Innanzitutto, la storia richiama la nostra attenzione sulle difficoltà di garantire pari possibilità di istruzione quando siano presenti disuguaglianze economiche elevate. Già Giuseppe, di famiglia più povera, ha avuto meno opportunità di istruzione di Nicola. Il che resta vero anche se Giuseppe avesse comunque scelto di iscriversi a Matematica a Bari piuttosto che, come Nicola, frequentare una prestigiosa università privata del Nord. Con il crescere delle disuguaglianze economiche fra la famiglia di Giuseppe e quella di Nicola crescono, tuttavia, in modo abissale le disuguaglianze di opportunità di istruzione per i figli.
A margine, aggiungo come nell’ambiente familiare più povero rischiano di essere più pronunciati i pregiudizi impliciti di genere. Concetta, la moglie di Giuseppe, e la figlia prediligono carriere tipicamente femminili: maestra, modella e lavoro sociale. L’uguaglianza di opportunità è attenta alla libertà: dunque, benissimo se quelle scelte sono prese in presenza di un processo educativo attento alla messa in discussione dei pregiudizi di genere. La storia, tuttavia, non ci offre alcuna garanzia che così sia.
Inoltre, la storia di Boitani individua diversi altri ostacoli al livellamento delle condizioni di accesso al gioco di mercato anche quando si neutralizzano le disuguaglianze di istruzione. Le difficoltà della figlia di Giuseppe di fare la modella non dipendono, infatti, da carenza di istruzione. Dipendono dalla presenza di scambi impropri; dalla carenza di risorse economiche che le impediscono di tirare avanti nei primi, più duri, momenti della carriera, quando il lavoro è inevitabilmente intermittente, nonché dalla carenza di conoscenze “giuste”. L’uguaglianza di opportunità dovrebbe allora occuparsi anche di queste barriere.
E non è tutto. Ipotizziamo che queste ultime barriere siano assenti, come sembra essere stato il caso per Concetta. Ciò nondimeno, Concetta e sua figlia hanno avuto una vita di stenti nonostante Concetta lavorasse. Se siamo interessati all’opportunità di partecipare alla pari nel gioco di mercato, non dovremmo essere interessati anche alla natura delle opportunità che il mercato offre? Detto in altri termini, non dovremmo andare oltre a come ci si presenta ai nastri di partenza della gara, occupandoci anche delle garanzie fondamentali che si ottengono nella partecipazione alla gara? O, ancora in altri termini, non conta solo che le probabilità di successo siano le stesse a prescindere dall’origine sociale (ossia che il povero bravo abbia le stesse chances del ricco bravo di accedere al vertice, mentre il ricco non bravo scende nella parte bassa), conta anche la struttura delle opportunità offerte dal mercato. Peraltro, più la struttura delle opportunità di lavoro è piramidale, più, di nuovo, contano le risorse economiche e di potere per riuscire ad arrivare a vertici, come insegna la vita di Nicola e dei suoi figli.
Infine, la storia ci dice come l’uguaglianza di opportunità non possa non occuparsi della cura. Giuseppe e la moglie sono costretti a modificare le loro scelte lavorative perché hanno un figlio disabile e tutta la famiglia ne soffre. La salute di Giuseppe è compromessa: Giuseppe cade in depressione e muore giovane (anche la moglie ha una vecchiaia breve). Molto probabilmente, ben diverso sarebbe stato l’esito qualora la cura fosse stata considerata una responsabilità collettiva con l’obiettivo di assicurare il più possibile condizioni/risultati di star bene della persona disabile e di chi gli presta cura, nel rispetto della libertà di scelta e della dignità sociale dei disabili. Il che richiede, sì, compensazioni monetarie adeguate. Richiede, però, anche servizi e configurazioni dei servizi coerenti con i valori della libertà e della dignità sociale. Richiede, ad esempio, di assicurare la voce dei partecipanti e di creare un contesto sociale complessivo “facilitante”, attento alle esigenze di essere curati, all’opportunità di offrire cura e al contrasto ai vincoli strutturali (basti pensare alla mobilità fisica) presenti in una società che trascura i disabili. Richiede altresì una cultura che non veda nella disabilità una colpa/una carenza privata e dunque un fattore di stigma. Forse anche la vergogna di avere un figlio disabile e sicuramente l’esposizione alla sua sofferenza hanno accorciato le vite di Nicola e di sua moglie, nonché limitato le opportunità della figlia.
La storia offre altri spunti di riflessione che travalicano i confini dell’uguaglianza di opportunità (che si occupa di una base di uguaglianza da assicurare a tutti). Ci induce, ad esempio, a riflettere se i grandi vantaggi economici acquisiti da Nicola possano essere, in sé, accettabili, in quanto frutto del merito.
Mi è sembrato tuttavia di interesse concentrarmi sulle complessità dell’uguaglianza di opportunità, cercando di mettere in evidenza, la limitatezza di declinazioni che, distinguono il piano delle opportunità da quello della distribuzione delle risorse economiche e trascurano sia i possibili ostacoli al pari accesso al mercato anche a parità di istruzione sia la natura delle opportunità di mercato sia le cose che il mercato non solo non sa fare, ma, addirittura, oggi rischia di penalizzare, come la cura. Insistere su queste posizioni può lasciarci un mondo dominato da effetti Matteo, dove chi più ha più avrà e chi meno ha è stritolato in una spirale progressiva di peggioramento, nella sottovalutazione di quanto sia importante la creazione di una base di stare bene per tutti e tutte.
Nel libro Uguaglianza di opportunità. Si ma quale? e in un precedente numero del Menabò ho approfondito questi temi, difendendo la prospettiva dell’uguaglianza di capacità sviluppata da Sen e Nussbaum come declinazione di uguaglianza di opportunità capace di rispondere alle obiezioni qui esposte, che le vicende di Nicola e di Giuseppe e delle loro famiglie mi hanno permesso di mettere a fuoco.