Carta prepagata: se l’aceto balsamico è vietato ai poveri. di Raffaele Lungarella

La carta prepagata di 385 euro una tantum destinata alle famiglie bisognose ha molti difetti. A partire dalla cifra, davvero esigua. Soprattutto però l’iniziativa soffre di un pregiudizio: l’idea che i poveri non sappiano gestire i soldi che ricevono.

Cos’è “Dedicata a te”

L’hanno chiamata “Dedicata a te”, la carta prepagata, caricata una tantum con 385 euro, che il governo mette a disposizione delle famiglie bisognose per aiutarle a fronteggiare l’aumento dei prezzi dei generi alimentari.

L’iniziativa si presta a una pluralità di rilievi. Il principale riguarda la cifra, che ne fa una misura quasi caritatevole. Poi ci sono requisiti di eleggibilità dei beneficiari che creano iniquità di trattamento ingiustificate tra soggetti che versano in un identico stato di bisogno. A tutto ciò si aggiunge una caratteristica della carta cui si è prestata poca o nessuna attenzione: il significato dell’erogazione in natura del sostegno e la limitazione delle tipologie delle merci acquistabili.

La lista dei generi alimentari della nuova carta si compone di 23 voci, con l’esclusione di tutte le altre centinaia di merci non elencate e che pure rientrano tra i consumi essenziali delle famiglie.

L’imposizione di un elenco di beni acquistabili con la carta non è una novità. È già successo con quella su cui era caricato il Reddito di cittadinanza, che permetteva il prelievo di un importo mensile in contanti e destinava la quota nettamente prevalente del sussidio all’acquisto di una tipologia ben definita di merci. Anche l’importo caricato sulla carta acquisti del reddito di inclusione del governo Gentiloni poteva essere prelevato solo in parte in contanti. Ma ora “Dedicata a te” permette di fruire unicamente di prestazioni in natura, per di più con una ristretta possibilità di scelta. L’obbligo, per il titolare della carta, di rifornirsi gratuitamente solo di alcune merci e non di altre ha anche l’effetto di distorcere il sistema dei prezzi relativi, che in un mercato concorrenziale garantisce un’efficiente allocazione della spesa tra beni e servizi alternativi.

Il precedente degli anni Cinquanta

Sulla scelta delle prestazioni in natura, quale modalità dell’intervento pubblico per contribuire a risolvere i problemi più impellenti delle persone bisognose, può essere utile richiamare alla memoria le conclusioni cui giunse, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla. I commissari conclusero che «specialmente quando il costo del servizio è identico (per il bilancio pubblico), vale meglio l’assistenza in denaro, e ciò per il valore morale che vi è connesso»; valore consistente in un accresciuto senso di responsabilità dei cittadini. Un obiettivo più facile da raggiungere «erogando denaro che non pane, pasta e latte, perché con il denaro il bisognoso valuta l’utilità di ogni lira stessa, e tra i suoi tanti bisogni tende a soddisfare quello più urgente, discriminando gli uni dagli altri con apprezzamenti del tutto soggettivi, ma sempre in funzione della sue volontà». Inoltre, «si è sperimentato che gli assistiti in natura hanno molte volte ceduto a rivenditori l’indumento o il genere alimentare ricevuti in dono, perdendo quindi parecchio del loro valore intrinseco» (qui può essere utile il richiamo all’esperienza con la carta con 500 euro concessa ai giovani dal governo Renzi per l’acquisto di libri: chi non era interessato alla lettura la vendeva con uno sconto).

Una forma di paternalismo autoritario

Ovviamente, la situazione attuale è differente rispetto a quella di settanta anni fa. Anche le condizioni di vita dei poveri, e delle persone appartenenti ai ceti meno abbienti, sono cambiate, in meglio, per la gran parte di loro. Vi è però un elemento che segna la distanza tra la classe politica dell’immediato secondo dopoguerra e i governanti attuali: il diverso grado di fiducia riposto nei poveri e nelle loro capacità di regolarsi nelle scelte. I “politici di una volta” non avrebbero avuto remora a realizzare interventi di sostegno pubblico con erogazioni monetarie per far fronte ai bisogni di prima necessità degli indigenti, poiché li ritenevano dotati del senso di responsabilità sufficiente per amministrare con oculatezza il denaro loro elargito. Dare un aiuto, costringendo chi lo riceve a utilizzarlo solo per acquistare merci comprese in una lista ristretta di beni, scelti più o meno arbitrariamente dell’autorità pubblica che finanzia quella specifica azione, può essere interpretato come una forma di paternalismo autoritario. L’aiuto in natura elimina sostanzialmente ogni libertà di chi lo riceve, comprimendo tanto più le sue possibilità di scelta quanto più corta è la lista dei beni messi a disposizione.

Il timore è, evidentemente, che la libertà che il beneficiario dell’aiuto acquisisce ricevendo un contributo monetario, potrebbe spingerlo a preferire l’acquisto di merci non comprese nel paniere che, si ritiene, dovrebbe essere riempito solo di beni di prima necessità. I poveri hanno una scarsa attitudine a gestire con parsimonia i denari che ricevono, con la conseguenza che potrebbero spenderli anche beni ritenuti voluttuari, come, per esempio, la marmellata, il pesce surgelato o l’aceto balsamico, che non rientrano tra le merci che possono essere acquistare con “Dedicata a te”.

fonte: lavoce.info

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