A Trieste per parlare del futuro della salute mentale. di Fabiana Martini

Sta emergendo un disagio sociale urbano enorme ma grazie alla legge 180 abbiamo gli strumenti per affrontarlo. Indubbiamente non basta una legge, per quanto buona, per affermare un diritto, occorre lavorare alla loro costruzione materiale. Quello che serve non sono né farmaci né diagnosi ma prendersi in carico la vita delle persone, non in maniera episodica ma continuativa, e rimettere al centro il welfare, rafforzando il servizio pubblico.

Non poteva essere diversamente, una giornata sul futuro della salute mentale a quarantacinque anni dall’approvazione della Legge 180 non avrebbe potuto svolgersi in un posto diverso da Trieste: lì dove l’impossibile è diventato possibile; lì dove si è stati capaci di mettere la malattia tra parentesi e ridare dignità e centralità alla persona, perché come sosteneva Basaglia «il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità», non «pericolosità da isolare o mera esistenza animalesca da relegare e dimenticare» per dirla con Claudio Magris; lì dove il manicomio e le sue esclusioni sono stati smontati pezzo per pezzo — dalle inferriate ai cancelli, dalle camicie di forza al camice bianco — nella certezza che all’interno del manicomio la malattia si aggravava e diventava irreversibile; lì dove al posto dell’ospedale psichiatrico ora c’è un parco culturale a disposizione della città in cui hanno trovato spazio l’Università, l’Azienda sanitaria, degli istituti superiori, un museo, uno spazio per conferenze, un teatro, un bar, una palestra, alcune cooperative sociali… e seimila rose! Perché sono proprio i luoghi più violati quelli che più di altri hanno bisogno di bellezza ed è proprio lì, nel roseto fortemente voluto da Franco Rotelli — lo psichiatra successore di Basaglia morto il 16 marzo — a cui la giornata è stata dedicata, che centinaia di persone da tutta Italia e non solo si sono date appuntamento sabato 6 maggio.

Bisognava tornare a Trieste, dove la rivoluzione è cominciata, perché «è qui che abbiamo imparato che le cose possono succedere», ha detto Dévora Kestel, direttrice del dipartimento della Salute mentale e Abuso di sostanze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ospite d’onore della manifestazione. Kestel, che è una psicologa esperta di politiche di salute mentale globale con oltre trent’anni di esperienza internazionale in Europa, nei Caraibi e in America Latina, ha lavorato dieci anni in Italia con gli psichiatri della scuola di Franco Basaglia: a Trieste nel Centro di Salute Mentale di Barcola, dando vita ai primi gruppi di auto-aiuto; a Udine organizzando i primi “gruppi appartamento” e avviando la chiusura dell’Ospedale psichiatrico Sant’Osvaldo. Tuttavia, non è di quanto si è fatto che si è inteso parlare, ma di cosa bisogna fare nei prossimi vent’anni, consapevoli che la gloria del passato non compensa le difficoltà del presente e convinti che non ci si può accontentare di un’eredità, neanche se si tratta dell’eredità di Franco Basaglia.

Il parco di San Giovanni è un luogo del presente, ha affermato in apertura di giornata la psichiatra Giovanna Del Giudice, anche lei tra i collaboratori di Basaglia, oggi presidente di Copersamm-Conferenza Permanente per la Salute Mentale nel Mondo Franco Basaglia, l’associazione che ha promosso l’iniziativa. E i muri sono nella nostra testa, per cui averli abbattuti non ci mette al riparo da pericolose tentazioni, che i recenti fatti di cronaca, omicidio Capovani in testa, inevitabilmente alimentano: «Dopo il brutale assassinio della psichiatra pisana è tutto più difficile, ma l’esposizione di un operatore, la sua vulnerabilità, resta un valore e nessun passo indietro va immaginato: occorre invece rafforzare il lavoro collettivo, che si fa protezione per gli operatori». Collettivo è la parola-chiave e non solo in riferimento agli operatori: «la salute mentale è troppo importante per lasciarla nelle mani degli esperti» ha detto Kestel «è responsabilità di tutti». «La salute mentale» le ha fatto eco Silvia Jop, che di professione fa l’antropologa e non la psichiatra «esige una soluzione collettiva e reciproca.

Immersi in una retorica della catastrofe abbiamo abdicato alla necessità di costruire una visione della realtà, per paura dell’ideologia si è smesso di produrre discorsi.» E il problema vero, sosteneva Rotelli, è l’abisso che tuttora separa il sapere, il potere e l’attività psichiatrica dalla salute mentale. «Forse — sono sempre parole di Rotelli raccolte durante una conversazione con Benedetto Saraceno e Giovanna Gallio una settimana prima che morisse — si è guardato troppo alla psichiatria e troppo poco alla salute mentale. Guardare alla salute mentale significa andare ben oltre. Vuol dire guardare a come sta la gente e quindi travalicare i confini di malattia-non malattia. Vuol dire parlare di cosa fa star bene e cosa fa star male le persone, e come cercare di far qualcosa per farle stare meno male. Per lenire il dolore o ridurre il mal stare di molte persone, devi mettere in movimento tutto ciò che può esserci di buono intorno a loro: contrastare tutto ciò che c’è di cattivo e attivare tutto ciò che c’è di potenzialmente buono. Questa è politica di salute mentale, che non ha niente a che fare con i servizi psichiatrici.»

È evidente anche a un non addetto ai lavori che per alleviare le sofferenze delle persone il servizio psichiatrico, peraltro sempre più indebolito, non basta: bisogna attraversare il loro quotidiano, incontrarle dove vivono e operano, sapendo — come ha ricordato Del Giudice — che sta emergendo un disagio sociale urbano enorme, che tuttavia non va patologizzato né psichiatrizzato: è un momento difficile, ma non un punto di non ritorno, perché con buona
pace di chi la vorrebbe mettere in discussione questo Paese ha fatto sua la legge 180; quello che serve non sono né farmaci né diagnosi ma prendersi in carico la vita delle persone, non in maniera episodica ma continuativa, e rimettere al centro il welfare, rafforzando il servizio pubblico. Indubbiamente — lo ha ribadito la direttrice dell’OMS — non basta una legge, per quanto buona, per affermare un diritto: la libertà è veramente terapeutica solo se chi ha bisogno viene sostenuto, aiutato e protetto, altrimenti è una finzione; non basta l’affermazione dei diritti, occorre lavorare alla loro costruzione materiale. Indirizzi questi ultimi ben presenti anche nelle tre strade indicate nell’ultimo rapporto sulla salute mentale dell’OMS, che Kestel ha voluto ricordare dal palco triestino: «Innanzitutto dobbiamo aumentare il valore che diamo alla salute mentale dal punto di vista individuale, comunitario e governativo: è un valore fondamentale, senza il quale non possiamo permetterci di essere chi siamo; dando valore si auspica che si aggiungano risorse, compromessi, impegni. In secondo luogo occorre rimodellare le caratteristiche fisiche, sociali, economiche degli ambienti in cui viviamo: casa, scuola, lavoro devono offrire a tutti pari opportunità di prosperare e raggiungere il benessere.
Infine bisogna rafforzare l’assistenza e i servizi di salute mentale per offrire una risposta a tutti i problemi attraverso una rete comunitaria di servizi realmente accessibili a tutti.
L’esempio che offro quando mi capita di parlare in virtù del ruolo che ricopro è proprio quello che ho imparato qui a Trieste».

Un modello virtuoso, che in molti da ogni parte del mondo continuano a venire a vedere, che a funzionato perché frutto di un reale lavoro collettivo capace di attivare dei “terzi”, ovvero risorse altre — educative, espressive, ludiche, comunicative, culturali, imprenditoriali — presenti nella città e nei territori, che non erano quelle specifiche del servizio psichiatrico: si tratta di risorse terze collegate alla politica delle città, alla politica dei paesi, a una politica di governo municipale che dovrebbe costituire la parte essenziale, il cuore stesso delle politiche civiche. Spiega sempre Rotelli: «È la politica civica a dover essere o diventare la politica specifica di salute mentale, perché c’è in essa il richiamo a quel tanto di comunità che ancora può esistere. Nel “civico” c’è qualcosa che possiamo ancora chiamare comunità: comunità grande, comunità piccola, più forte o più debole, più avvizzita e friabile o invece più densa e presente, più distrutta e frammentata o istituzionalmente solida, coesa».

Una buona salute mentale si fa in giro, non nei servizi di diagnosi e cura, e ci riguarda tutti, perché ci parla di diritti non solo in potenza: «la salute mentale» ha detto lo psichiatra Alessandro Saullo «è l’archetipo di come si può fare giustizia sociale». Perché quello che è diventato un privilegio torni ad essere un diritto che non esclude nessuno e nessuna.
Vivere senza manicomi è possibile, ma non è dato per sempre: il lavoro di deistituzionalizzazione dev’essere continuo e va ridiscusso e negoziato con chi sta raccogliendo il testimone. Di lavoro da fare ce n’è ancora tanto, la rivoluzione è appena cominciata.

fonte: https://www.micromega.net/a-trieste-per-parlare-del-futuro-della-salute-mentale/

 

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