Sandro Spinsanti è capace di stupirci di nuovo: scrive un libro sulle cure palliative che sembra un libro sulla fine della vita e invece parla di vivere in modo diverso. Sembra un libro sulle cure palliative e invece è centrato sul sapere curare, sempre, in ogni condizione, in ogni tempo della vita.
Il libro tenta di schematizzare un approccio formativo completamente diverso da quello che viene fornito attraverso l’Università agli studenti di Medicina e quindi ai futuri medici e, per fare questo, deve rivedere il significato delle parole: per esempio la parola “palliativo” nasce da una traduzione, che lui ritiene sbagliata, di una accezione particolare della medicina. Parte dal sospetto che la nostra medicina non stia facendo il meglio nell’accompagnamento all’ultimo miglio del percorso vitale e più volte nel libro viene affermato con decisione che nominare la palliazione equivale a evocare il fantasma della morte, un’evenienza dalla quale sempre più si rifugge; ritiene invece che la sostituzione del termine palliativo con sinonimi probabilmente può ricondurre il significato all’equivalente metaforico del gesto di San Martino che condivide il mantello con un povero.
Spesso la violenza delle parole, comprese le parole non dette, rappresenta il profumo della violenza dei comportamenti, mascherata sotto il cappello della buona conoscenza di chi identifica la cura con “è stato fatto tutto il possibile”
Il richiamo alla palliazione suona quindi, dice Spinsanti, come un tentativo patetico di mascherare l’inefficacia ed essere affidato a un palliativista rischia di essere vissuto come quando gli appestati nei Promessi Sposi erano gettati nelle braccia dei monatti.
Bisogna dunque ribaltare i termini, bisogna domandarsi: che cos’è la buona cura? Intanto sarà il giorno che non dovremmo più parlare di palliativisti come di specialisti della morte!
Non è possibile rivedere il concetto di buona cura se non vengono sottratti i trattamenti palliativi alla marginalità in cui sono attualmente confinati; se essere in salute è anche il saper convivere con la cronicità, che ormai statisticamente definisce la vita di un numero crescente di persone, vuol dire anche che bisogna intendere l’esistenza non soltanto per la quantità di giorni che ci è dato vivere, ma anche per la loro qualità, compresa la qualità del morire, perché la morte è una dimensione della vita.
Tutto il primo capitolo è dedicato all’uso delle parole giuste; in particolare il problema è la concezione del dolore che, in alcuni ambiti sociali, veniva esaltato come condizione per accedere a un livello superiore di esistenza, generando così una specie di mistica del dolore applicato a tutte le fasi della vita, non ultimo, per esempio, il dolore durante il parto. Con la legge 38 del 2010 si sancisce il diritto ad accedere alla terapia del dolore e ad avere trattamenti antalgici accessibili per tutti i cittadini, su tutto il territorio nazionale. È un intervento palliativo? In realtà, invece che considerare l’intervento del palliativista come la sostituzione laica del ministro di culto, converrebbe considerare che, quando nel nostro Paese si dice che non c’è più niente da fare, in realtà c’è ancora tanto da fare, perché le cure palliative non presuppongono l’abbandono terapeutico del paziente che sta morendo per passaggio ad altra agenzia, che sia la spiritualità o la palliazione: le cure palliative hanno il compito di lenire il dolore e contrastare i sintomi e, a questo fine, possono prevedere anche sofisticati interventi terapeutici.
L’approccio palliativo, salvo specifiche conoscenze e abilità, dovrebbe essere proprio di ogni curante ed essere simultaneamente presente nel lungo percorso di cura. Non è un’altra medicina, né un’alternativa alla medicina: la palliazione è parte costitutiva del rapporto di cura nella situazione in cui non siano stati trovati interventi capaci di contenere l’avanzata della patologia. L’uso non corretto delle parole può portare a conclusioni sbagliate; si confonde eutanasia (che viene utilizzata per situazioni assolutamente complesse) con cure palliative. La tematica deve essere chiamata con il nome appropriato: la legittimazione del suicidio assistito non deve evocare l’ombra dell’eutanasia. Quindi è un lavoro di riconoscimento di termini equivoci come l’inflazionatissima “eutanasia” per designare situazioni completamente diverse. Questo il libro tenta di fare con molti esempi e metafore interessanti.
Fonte: Grusol da doppiozero